Cosa lega un’afghana (Nadia Anjuman), una russa (Marina Cvetaeva), un’italiana (Amelia Rosselli) e una giapponese (Akiko Yosano)? La prima risposta è quella più superficiale e vera: la poesia. Ciascuna di loro riassume in modo emblematico una faccia di quella facoltà dello spirito che unisce in un coro sovranazionale e sovratemporale le trenta autrici presenti nell’antologia Versi di libertà
Facciamo un gioco. Cosa lega un’afghana (Nadia Anjuman), una russa (Marina Cvetaeva), un’italiana (Amelia Rosselli) e una giapponese (Akiko Yosano)?
La prima risposta è quella più superficiale e vera: la poesia. Perché Nadia Anjuman, Marina Cvetaeva, Amelia Rosselli e Akiko Yosano sono quattro poetesse.
Ma perché, fra le trenta poetesse antologizzate in Versi di libertà, edito da Mondadori nel 2022, ho scelto di proporre queste quattro ai ragazzi che saranno presenti al Salone del Libro di Torino?
Perché ciascuna di loro riassume in modo emblematico una faccia del poliedro della libertà, facoltà dello spirito che unisce in un coro sovranazionale e sovratemporale le trenta poetesse dell’antologia.
Approfondiamo le quattro prescelte. Nadia Anjuman paga con la vita la propria libertà di comporre ghazal d’amore, attività vietatissima alle donne sotto il regime talebano («Io non sono come un debole pioppo / Che si piega al vento. / Io sono una donna afghana, / E questo è il mio lamento»).
Il marito, stimato ricercatore universitario, finisce a pugni quella ragazzina venticinquenne che gli disobbedisce, perché – sebbene il regime impedisca alle donne di studiare, cosa che Nadia pure denuncia, con dolore grande, nelle proprie poesie – proprio non riesce a smettere di scrivere.
Marina Cvetaeva è dapprima costretta all’esilio dalla propria opposizione al regime, purtroppo instauratosi dopo la giusta rivoluzione russa del 1917. Tornata in patria, preferisce il suicidio alla condizione di umiliazione e miseria nella quale è costretta («Mi è indifferente tra chi / ammutolire, inghiottire la rabbia, / da quali cerchie e ambienti / essere espulsa – e ricacciata sempre / nel cerchio dei miei sentimenti»).
Cvetaeva non accetta che il mondo non sia il luogo di bellezza e giustizia che lei e l’amico Boris Pasternak avevano sognato. Un testo illuminante sul mondo sognato dai poeti, e dunque sui legami che i poeti intercettano da sempre fra cosa e cosa, è lo scambio epistolare del 1926 fra tre giganti, appunto Marina Cvetaeva, Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, pubblicato in Italia col titolo “Il settimo sogno”.
Amelia Rosselli trasferisce di peso nella propria poesia ogni aspetto della propria biografia intensamente politica (essendo rispettivamente figlia e nipote di Carlo e Nello Rosselli, uccisi dai cougards fascisti, sicari agli ordini di Mussolini e Ciano, a Bagnoles de l’Orne il 9 giugno 1937): il trilinguismo dei costretti all’espatrio, la musica studiata da ragazza, insieme ai lapsus che riportano sulla pagina la grammatica del trauma, a contatto con la libertà del suo genio, formano una sintesi irripetibile e inimitabile di fervore e concretissima astrazione, che rivoluziona la lingua italiana, non solo la poesia. («Le rondinelle giocavano molto dolcemente al disopra dei / tetti del Trastevere ma io non vedevo altro che il Paradiso. / Sopra del Paradiso stavano le Sette Sante. Oltre il Paradiso / custodiva le sue pecore una vecchia comare che non portava / altro attorno al collo che le sue povere fibre»).
Akiko Yosano scardina, coi suoi testi, la compostezza richiesta dalla tradizione alle donne giapponesi.
I suoi versi, semplicemente, raccontano la verità del corpo e del desiderio femminili, negano l’appartenenza del corpo femminile allo stereotipo pensato dalle menti degli uomini fino alla fine dell’Ottocento. («Chiedilo alla poesia: tra i fiori di campo, chi rifiuterebbe quelli scarlatti? / Come loro è seducente il peccato primaverile di una giovane fanciulla»).
Yosano è una delle prime femministe orientali, la sua corona è fatta di capelli scarmigliati, attitudine all’epoca davvero sconveniente, come sconvenienti sono i suoi versi, e il ricambiato amore per il maestro di tanka, componimenti di cinque versi, che avrebbero dato origine allo haiku, di tre soli versi.
I costi di una rivolta
Rivoluzioni, dunque, di stile e contenuto che, in poesia, sono perfettamente coincidenti.
Rivoluzioni dure, pagate con l’esilio o con la propria stessa scomparsa. Rivoluzioni fatte per amore della parola, di una parola libera, svincolata da tradizioni, usi, doveri, costumanze. Una parola che sia corpo, perché nasce – come sempre la parola che turba – da corpi che hanno attraversato la storia senza cedere, riconoscendo prima di tutto i propri desideri, unici e originali ma universali, pronunciati cioè, col corpo e con la parola-corpo, a nome di tutti.
Diamo adesso per ovvio che la contemporaneità abbia smarrito il concetto di comunità umana, e l’attenzione sia concentrata sull’io, singolare e solo. Ma fatichiamo a distinguere il desiderio di quest’io singolare e solo, perché diamo anche per ovvio che, paradossalmente, quest’io contemporaneo debba – e poi voglia – essere uguale a quello di tutti. L’obiettivo è unico, soprattutto per i ragazzi: essere visti, sul palcoscenico planetario dei social.
In un momento storico nel quale il rischio sociale più grande, per i ragazzi, è dunque quello di diventare uguali, non nel senso della democrazia, bensì in quello dell’omologazione, cioè della tensione a corrispondere allo standard imposto dal mercato attraverso la sottile linea d’ombra dei social detta algoritmo, credo fortemente che portare esempi come le vite di queste quattro donne, che hanno fatto della loro esistenza un grido di libertà, sia fondamentale, sia incoraggiante.
Sia, in una parola, liberatorio. Soprattutto perché Anjuman, Cvetaeva, Rosselli e Yosano, come le altre ventisei compagne di antologia, dimostrano di aver lasciato una traccia ben più durevole di quella del reel di un’influencer.
Sarà bello lasciarsi influenzare dalla loro dolcezza, dalla loro forza, dalla loro definitiva presa di parola, che ha lo stesso senso di una carezza, di una mano che sporge dai secoli per raggiungere noi, di una voce che sporge dai secoli per parlarci di noi.
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