Difficile stabilire se sia nata prima lei, la moto, o lui, Franco Morbidelli. Un frullato americoitaliano di staccate e derapate che ha fatto sobbalzare sul divano i fan del motomondiale a Misano e domenica 13 settembre è entrato, con la prepotenza di una delle sue staccate da apnea, in tutte le case d’Italia vincendo il suo primo gran premio nella MotoGp. Anche quelle animate dai meno affezionati alle vicende degli sport motoristici. A distanza di una settimana, ancora a Misano, cercherà di ripetere il miracolo.

Il documento d’identità di Morbidelli è autentico solo nella forma: il nome, così comune, e Roma come città natale il 4 dicembre 1994. Niente che racconti di papà Livio, della sua officina meccanica nel quartiere San Giovanni e del suo amore per le due ruote, così totalizzante da mettere sotto il pannolone del figlio non il girello, ma una minimoto, poi riadattata per le prime prove clandestine nel parcheggio. In realtà il mezzo era destinato al nipote, più grande di qualche anno di Franco, ma quell’altro bimbo era recalcitrante. Il figliolo no: al contrario, pareva attirato da quel coso con le ruote che faceva brum brum.

Mamma Cristina, brasiliana di Recife, lasciava fare. Le prime parole di Franco le ricorda come fosse ieri, non mamma o pappa ma «moto e babbo». Solo che in città, lungo il rettilineo di via Taranto, semmai ci si poteva concedere qualche impennata non autorizzata con la bicicletta; di certo non si «respirava benzina», come Livio amava dire. Non erano quelli, i terreni su cui coltivare il sogno di crescere un campione.

A Tavullia, invece, sì. Morbidelli senior era conterraneo di origine e amico da tempo di Graziano Rossi, il babbo di Valentino, perché lo aveva conosciuto negli anni delle competizioni nazionali. In quella landa marchigiana ai confini con la Romagna, i Rossi avevano la loro casa ma anche una pertinenza meno nota, “la cava”, un piccolo circuito ufficioso di terra e fango che correva accanto al fiume Foglia, nascosto ai più, in cui Valentino si faceva le ossa con la moto da cross studiando traiettorie e tecnica del sorpasso.

Morbidelli senior non ci mise molto a farsi convincere: chiusa l’officina e venduta la casa, ripiantò le tende là dove si vive di motori, trovando amici disponibili a dargli una mano. Perché l’altra faccia del successo non emerge, se non occasionalmente, ma è fatta di famiglie rimaste sul lastrico, sacrifici e azzardi economici, sogni spezzati, talora vite rovinate. Anche nel motociclismo correre costa e, nelle categorie minori, i soldi evaporano come una pozza d’acqua sull’asfalto bollente.


Un predestinato
Franco, però, non sembrava soltanto il figlio di un padre innamorato e ostinato. Aveva la stoffa. Non era uno spaccone, non prevaricava ma era lucido e calcolatore. Imparava in fretta, più degli altri. Quando Valentino Rossi se ne accorse, gli diede le prime dritte: «Se ti fai male, non ti abbattere. Capita. E non fare troppi calcoli: in gara non puoi lasciarti niente in tasca, devi sempre andare a tutta. Se puoi sorpassare, sorpassa: nessuno ti dice che, al giro dopo, tu possa ancora farlo». Detto, fatto. Nel giugno 2013 la prima vittoria, a Portimão, nel campionato europeo Superstock 600, poi vinto in sella a una Kawasaki. 

Solo che, a fargli le feste nel paddock, papà non c’era più. All’inizio dell’anno Livio Morbidelli, la chiavetta di accensione del fuoriclasse, si era fatto da parte per sempre, con la più disperata e definitiva delle scelte. Davanti alla quale si può solo fare un passo indietro e compatire il tormento di chi è restato. Franco e la madre decisero di non farsi vincere dalla disperazione, e c’è un bellissimo pensiero del figlio a testimonianza di quanto la maturità non sia merce in vendita: «Fu una cosa tremenda, straziante, la peggiore della mia vita. Io e mia madre abbiamo dovuto imparare a vivere da soli, tra tante difficoltà, ma non volevamo farci rovinare. Per sconfiggere la rabbia e il dolore dovevo diventare più forte, crescere più in fretta. Iniziare daccapo. Non è facile entrare nella testa di una persona, soprattutto a cinquant’anni. Non ho cercato risposte, al gesto di mio padre. Non le voglio neanche cercare».

La salvezza dopo il dolore

La boa di salvezza, ancora una volta, era gialloblu e griffata col 46 di Valentino. Rossi, considerata la disgrazia, diede un’accelerata agli eventi: lo prese da parte e gli offrì un posto fisso nel ranch. Stava per nascere la sua accademia per aspiranti piloti professionisti, Morbidelli aveva i soldi contati e nessuno che potesse seguire i suoi affari. I sei prescelti dal pluricampione per frequentare la scuola dell’eccellenza furono Luca Marini, Andrea Migno, Nicolò Bulega, Romano Fenati, Francesco Bagnaia. E lui, Franco Morbidelli. I convocati non dovevano pagare, semmai restituire il favore sotto forma di percentuale sul fatturato, una volta (e se mai) sistemati nelle scuderie di prestigio. Una formula che permette a chi non ha le spalle coperte di far germinare il suo talento.

Al quinto anno di Moto2, che per i non iniziati è la categoria intermedia del campionato mondiale (una volta si chiamava “la 250”), Franco Morbidelli vinse la prima, la seconda e la terza gara in calendario. Non capitava da più di 15 anni, quando c’era riuscito il povero Kato, poi vittima delle piste nel 2003. L’ultimo italiano a trionfare in Moto2 era stato Marco Simoncelli, pure lui rimasto ucciso da uno sport che ha sempre domandato un tributo di sangue sul quale si accendono, all’alba di ogni tragedia, discussioni inconcludenti. Ed è per pura fatalità che quanto era capitato al povero “Sic” a Sepang, nel 2011, non si sia ripetuto lo scorso agosto in Austria, quando una manovra irresponsabile di Johann Zarco ha disarcionato proprio l’incolpevole Morbidelli dalla sua Yamaha, facendola schizzare davanti alla visiera non di un avversario qualunque ma del suo amico, tutore e mentore, Valentino. Rischiando il più sanguinoso e grottesco degli epiloghi. «Anche io ho paura», ebbe a dire Morbidelli sui rischi del mestiere, «ma solo prima e dopo le gare. Quando sei in moto, scompare tutto».

È il cliché di chi è abituato a vedersi passare accanto a trecento all’ora il mondo tenuto su da una gomma gonfia d’aria. La razionalità imporrebbe di mettere in discussione uno sport che può ammazzare; da che corsa è corsa, però, i piloti respingono il pensiero della morte. E gli appassionati, implicitamente, pure.


L’arrivo in MotoGp
A novembre 2017, sulle ali dell’entusiasmo per il trionfo, i primi test nella classe regina, la MotoGP. Nel 2019, il passaggio al team Petronas Yamaha, con il prodigio di Nizza, Fabio Quartararo. Sempre senza proclami, con la misura e la capacità di analisi di chi sembra aver vissuto un paio di vite di riscaldamento, prima di quella vera. O di chi è andato a scuola di moto tutti gli anni della sua vita. Di Ayrton Senna, idolo elettivo per origine e per talento, morto a Imola nell’anno in cui Franco nasceva, Morbidelli dice di aver apprezzato «il suo modo di parlare, il suo saper essere tranquillo e diretto», più che i sorpassi da extrasistole ai danni di Alain Prost. Scandagliare le sue dichiarazioni alla ricerca di una boutade, o di un pensiero cattivo, anche solo qualcosa di utile ad attizzare una polemica, è tempo perso. Salvo, per carità, quel «mezzo assassino» rivolto a Zarco, detto e subito ritirato dopo aver sbirciato la vita a un centimetro dal finis terrae.

Fino a ciò che è cronaca. Il primo podio il 9 agosto scorso, a Brno. E poi il capolavoro di Misano del 13 settembre, la consacrazione di un autentico predestinato. Durante la gara, il sempre pittoresco Valentino (che con i suoi 41 anni è arrivato quarto) si è visto scappare via l’allievo, fino a vederlo sparire dietro una curva «e lì ho pensato, dopo che pure Bagnaia mi aveva passato, “Ma di chi cavolo è stata l’idea di fare questa accademia?” E lì ho capito che non mi potevo lamentare, perché era stata mia! Anzi, adesso mi sa che la chiudo».

"Morbido" ha spiegato di non essersi sentito il nuovo Valentino, negli ultimi giri di Misano, ma solo un ragazzo sopraffatto dalle emozioni. Di aver girato tenendo le sue linee, mentre approcciava il traguardo, «con la testa tra le nuvole, come in una seduta psicologica». Ha dedicato la vittoria a chi lo ha aiutato a «non farmi tritare» negli anni bui, alla mamma, alla squadra. E certo, al papà, a Livio, «che mi ha dato una grande mano e mi ha insegnato a essere forte». Forse più di lui.

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