Grandi possibilità uguale grandi pericoli. Mentre la vita si sposta sul lato digital, il primo imputato biopolitico è la tecnologia. Basta chiedere a insegnanti stremati da classi online, genitori martellati da chat parentali, a quel che resta di un partecipante dopo una lunga riunione in modalità “lavoro agile”, alla legione di addicted del sesso virtuale.

Dei rischi biopolitici/tecnologici parlano sociologi come Evgenij Morozov e web guru come Jaron Lanier. Documentari come The Social Dilemma spiegano come le aziende facciano i soldi con le cose più preziose che abbiamo: i dati, ma soprattutto il tempo. Libri come La valle oscura di Anna Weiner (Adelphi) raccontano come la Silicon Valley ci abbia trasformato in tante piccole Madame Bovary, appese a desideri imprendibili, e in fondo impensabili. Desideri di desideri.

Poi internet che disabitua alla memoria, distrugge l’attenzione, rende più permeabili alle fake news, scatena gli istinti bullisti, razzisti, populisti.

Il panorama apocalittico è questo. Quello degli integrati è costituito da tutti noi, tristi come chi deve o entusiasti come chi vuole, utenti dell’ambiente digitale.

Ma è il caso di andare oltre la divisione apocalittici/integrati inaugurata da Umberto Eco nel 1964. Un libro che spiega come farlo è Emozioni dell’intelligenza di Pietro Montani (Meltemi).

Le forme brevi

L’idea è che le «forme brevi» di rappresentazione, come appunto i post, le stories, e in nuovi materiali multimediali siano in grado di manifestare il funzionamento dell’immaginazione proprio in virtù della loro frammentarietà. E che nel passaggio tra un format, o un tono, a un altro, possa avvenire una “catarsi”, nel senso di una messa in questione, una “negazione”, che dà modo al pensiero di svegliarci dalla pennichella digitale.

Esempio: il video su TikTok (piattaforma cinese) in cui l’attivista Feroza Aziz mostrava come usare un piegaciglia si trasforma in un appello politico, in cui si denuncia la repressione dei musulmani uiguri da parte del governo cinese, paragonandola all’Olocausto. Piegacapelli e Olocausto. Il format social ne risulta stravolto. La denuncia è potente proprio in quanto inconciliabile con il genere make up tutorial. Il seguito lo conosciamo: rimozione del video. Proteste. Ripristino del video con tante scuse. Rifiuto delle scuse.

Ed è uno dei tanti esempi in cui l’aspetto sarcastico, “anti-patico”, che si trova in abbondanza sui social va oltre l’ironia spicciola, diventa un richiamo per l’intelligenza collettiva. In questo senso, più che in quello iconico dei testimonial per iniziative “buone”, abbiamo bisogno di influencer.

Altro esempio: il film Selfie di Agostino Ferrente, che con tutto ha a che vedere meno che con il solito narcisismo da selfie. È un gioco raffinato di autoriprese, citazioni (anche di Gomorra, come quando uno dei protagonisti si sdraia sul divano «come fanno i boss della malavita»), negazioni, intorno a un fatto imbarazzante per le autorità: l’uccisione di Davide Bifolco, diciassettenne disarmato del quartiere Traiano di Napoli, avvenuta nel 2014.

Continui cambi di registro

Anche in questo caso è fondamentale che le storie non vengano raccontate direttamente, ma attraverso un continuo passaggio di registro, e di media. I punti fondamentali, spiega Montani, per cui le «forme brevi» del digitale non sono affatto uno stupido intruso nel funzionamento dell’intelligenza e delle emozioni ma permettono uno sguardo nuovo, sono due.

Punto primo. I mezzi che usiamo per conoscere e fare da sempre influenzano il nostro modo di pensare, dall’argilla con cui si facevano i vasi nella preistoria ai social di adesso. Vale a dire (e come spiega Lambros Malafouris nel classico How Things Shape the Mind con il concetto di material engagement) la nostra testa, da sempre, “esternalizza” una parte del pensiero agli oggetti con cui ha a che fare.

Nell’ambiente digitale i bambini sono più svelti dei grandi, perché il pensiero è, già in partenza, in una qualche misura, per loro, appaltato ai media digitali. Montani, a riguardo, parla di «sensorio digitale».

Punto secondo: l’immaginazione, la facoltà umana più misteriosa (e misterica), è già inter-mediale. Qui Montani mette in fila testimoni come Aristotele, Kant, (Freud e Heidegger sul concetto di rielaborazione) e soprattutto lo psicologo russo Lev Vygotskij, facendo l’esempio del «linguaggio egocentrico». I bambini fino a una certa età parlano da soli giocando, e verso i nove/dieci anni smettono. Perché? Perché questa sorta di commento verbale, il cui oggetto è un fare, viene «introiettato». E va a costituire la base emotiva/formale per il modo in cui ci pensiamo e ci esprimiamo.

Dentro di noi c’è una sintassi fatta di legami con le cose, e di salti di lingua, significati, forme, che è “naturalmente” dispersa tra diversi media. Le forme brevi del digitale sono il corrispettivo più esatto di questa sorta di struttura.

Normalizzazione dei dati

Il lato teorico del lavoro di Montani era stato preannunciato in diversi suoi libri precedenti, in particolare ne L’immaginazione intermediale (sempre Meltemi). Gli esempi portati da Montani sono tanti, sia dalla rete che dal cinema (l’autore insegna Estetica alla Sapienza di Roma, e la sua passione per i film è il riferimento centrale del suo lavoro filosofico).

Un paio di critiche possibili a questo libro prezioso. La prima è che le major del digitale più che favorire un approccio “discontinuo” ai vari media e social tendono a tenerci più possibile nel bozzolo di un unico format e modello rappresentativo per questioni di tempo di permanenza sulle pagine, e di raccolta e “normalizzazione” di dati; e che quindi la modalità “euforica” fatta di rischio e di salto da una forma all’altra, l’uso cognitivamente improprio del digitale, sia sempre più difficile.

La seconda è che l’epoca dell’iper-moderno, al contrario del postmoderno, sia basata su levigate performance emozionali. Più empatia che “anti-patia”. Più, parlando la lingua di Freud, l’infinito propagarsi della “melanconia” che la decisione del “lutto”. Ma il merito di questo testo è ricordarci che noi già da un po’ immaginiamo in modo intermediale. E che rispetto alla creatività individuale non c’è policy che tenga.

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