Giacomo ha soltanto ventun anni quando inizia l’avventura di Primo Tempo, che in pochi mesi lo mette in contatto con i futuri grandi nomi della letteratura italiana. La sua capacità di coinvolgerli ha qualcosa di miracoloso: nei dieci numeri della rivista pubblica le poesie di Saba e Ungaretti, le prime liriche di Montale, i saggi di Giuseppe Prezzolini, Leone Ginzburg, Natalino Sapegno. Debenedetti e Sapegno hanno la stessa età e negli anni dell’università vivono il clima illuministico della Torino antifascista, la Torino delle lotte ideologiche e dell’impegno per sprovincializzare la cultura italiana. Quel periodo giovanile rimane il più bello delle loro memorie comuni e molto più tardi, a proposito di Giacomo, Sapegno ricorderà il suo «fervore sorgivo di entusiasmo che è la luce insostituibile di una giovinezza assorta avida e inquieta».

Fin dai primi numeri Primo Tempo diventa una fucina d’intelligenze e di idee, un punto di incontro tra i protagonisti della nuova letteratura. Sulla rivista escono per la prima volta Riviere e le sette liriche di Accordi di Montale. Ungaretti plaude entusiasta alla nascita del nuovo giornale, che gli pare una ventata d’aria nuova nell’immobilismo di quegli anni: «Penso allo stato delle nostre lettere» gli scrive.

«Disastro! Non abbiamo una rivista letteraria degna di questo nome». Primo Tempo può riempire quel vuoto «cercando di indicare qualche linea maestra nell’attuale confusione». (...)

Il compenso è fondamentale

Quando Primo Tempo, che nei progetti iniziali doveva avere dodici numeri annuali, non riesce a uscire con regolarità, Ungaretti si preoccupa: «Mio carissimo, che cosa succede?» gli chiede ripetutamente, impaziente com’è di vedere pubblicate le sue poesie.

Poi, dall’alto della sua fama crescente, non rinuncia a impartire al giovane Debenedetti qualche lezione: «La questione del compenso degli articoli» gli scrive «è fondamentale. Come vuoi che uomini sui quarant’anni, che hanno un nome, che hanno famiglia, che vivono esclusivamente del loro lavoro, in tempi economicamente tragici, possano regalarci ciò che a loro costa maggior fatica? Tanto più che giornali e riviste – tutte le riviste italiane indistintamente – pagano la collaborazione letteraria? Se la tua rivista non può sopportare una spesa troppo forte, riducila a poche pagine mensili per cominciare – pochi ma buoni – e quando il successo di vendita sarà venuto, darai anche più roba. Per incoraggiare un’iniziativa nobilissima come la tua, qualcuno – quanti? – sarà sempre disposto a fare ogni tanto un sacrificio: di regola, con questi chiari di luna, non sarebbe umano».

L’incontro con il “padre”

Ma è con un altro poeta che avviene l’incontro fatale, quello determinante per la fortuna critica e per la vita di Debenedetti.

Nell’autunno del 1922, un anno dopo aver pubblicato Il Canzoniere, Umberto Saba suona alla porta di Giacomo che gli ha appena dedicato un saggio nel terzo numero di Primo Tempo. «Era già noto» racconterà Debenedetti, «già maturo come poeta (aveva quarant’anni) ma era come un giovane che faticasse a farsi strada».

Saba indossa un vestito blu e un berretto da ciclista, ha un «sorriso dolce e astuto» e un modo di parlare tutto suo: «La nativa Trieste gli fa scempiare alcune doppie, allargare alcune vocali». Nonostante quell’espressione amabile, il suo sguardo limpidissimo è «pronto a passare dalla dolcezza all’aggressività» e nelle pupille passano «guizzi sfuggenti, come di chi si guardi alle spalle».

Forse in quello sguardo Giacomo riconosce qualcosa di sé: vede quell’ansia ebraica di chi, dopo ogni momento felice, si aspetta «orribili vendette di occulti, veri o supposti nemici».

Saba ha lasciato Trieste ed è venuto a Torino per conoscere il suo critico «vergognosamente giovane». Tra i due l’intesa è immediata, nonostante i vent’anni che li separano.

(...) Tra loro si stabilisce un rapporto strettissimo e profondamente affettivo: «Dopo la mia famiglia» scrive Umberto «sei la persona a cui voglio più bene». Per Giacomo, Saba ha le attenzioni e la comprensione di un padre, pronto a capire e a scusare i capricci e le scorribande sentimentali del suo giovane amico.

«Quando ti ho conosciuto eri ancora un ragazzo e mi sembrava di poterti dire tutto» dice quasi a volersi scusare della propria invadenza. «Ora, come tu sai, una relazione prosegue come ha incominciato, è difficile mutarne il carattere. La nostra ha avuto principio sotto la costellazione di padre e figlio e tale, non nella realtà oggettiva ma nel mio pensiero, si è poi mantenuta».

(...) Nonostante i comportamenti di Umberto siano a volte nevrotici, quando consiglia il suo pupillo è saggio e sollecito: «Credo di indovinare» gli scrive «dicendo che tu soffri della tua giovinezza, perché esiste un male che è proprio ai giovani delicati e sensibili, che fa molto soffrire, ma dal quale guarirai certamente».

(...) Umberto diventa il vero confidente di Debenedetti. (...) «Questa amicizia non ha alcun modello» scriveva Montaigne «e può solo essere paragonata a se stessa. È una misteriosa quintessenza». È così per Giacomo e Umberto: tra loro si stabilisce da subito «una misteriosa quintessenza», un livello di confidenza e d’intimità che non avranno con nessun altro. Il sentimento paterno e filiale si mescola all’ammirazione, il bisogno di protezione alla riconoscenza.(...)

Il vento di Trieste

Da Trieste arriva anche l’altro grande amico di Giacomo: Bobi Bazlen. Secondo Claudio Magris, Trieste è una città di scrittori, grandi, mediocri o falliti, perché i contrasti che paralizzano la sua storia inducono a credere che solo scrivendo si possa dare consistenza alla propria persona. Sia Debenedetti, che Saba e Bazlen, nella letteratura hanno cercato se stessi. Non è dunque un caso se gli amici più stretti di Giacomo arrivano proprio da «quella patria che non c’è».

«Voi triestini» dice una volta Debenedetti rivolgendosi all’amico Umberto «siete veramente figli del vento. È per questo che amate tanto moralità e apologhi, favole e favolette. È perché sei nato nella città della bora che scrivi scorciatoie».

E non è solo l’amore per Trieste ad accomunare Umberto, Bobi e Giacomo. Il legame più forte è la loro origine ebraica: Saba e Bazlen sono ebrei solo per metà ma tutti e tre si sentono «passeggeri clandestini nella storia».

Con Bazlen, racconterà anni dopo Renata, Giacomo aveva «conversazioni lunghissime, viscerali». Se Saba è la figura paterna, il consigliere, il poeta più amato, Bazlen è una specie d’imprevedibile saltimbanco della mente, un concentrato di Mitteleuropa. (...)

Bloccato dal suo inarrivabile narcisismo, Bazlen è un grande scrittore senza libri ma, se non ha scritto quasi niente, è la sua vita che ha voluto trasformare in un’opera d’arte. Quello che gli interessa è suggerire le opere che lui ritiene importanti: scopre il misconosciuto Svevo, fa conoscere in Italia Kafka e Musil. Come il filosofo e mistico cinese Chuang-tzu, anche Bobi pensa che il sapiente debba lasciare il minimo delle tracce: i libri che lui consiglia sono le sue tracce.

(...) Nel romanzo Lo stadio di Wimbledon, Daniele del Giudice racconta di Ljuba Blumenthal, la profuga ebrea che è stata accanto a Bazlen per molti anni. «Quando io l’ho conosciuto» le fa dire del Giudice «ho pensato che aveva due vocazioni: una era di far conoscere quello che a lui sembrava importante. E l’altra... C’è un punto della vita in cui va presa una decisione fondamentale. Ecco: molte persone, arrivate a quel punto, hanno incontrato lui. E lui le ha aiutate a cambiare, o a decidere. Io credo che questa era la sua passione, e il suo capolavoro. Nient’altro».

È Saba il tramite di questa nuova conoscenza. (...) Ma nonostante sia stato lui a favorirla, l’improvvisa amicizia tra i due scatena la gelosia di Saba che pretende di essere l’unico a possedere il cuore di Debenedetti. Umberto è sempre solidale con il suo Giacomino, mentre a volte Bazlen sa essere maligno e le sue battute sono spesso acuminate. (...)

Eugenio Montale

Anche l’amicizia tra Debenedetti e Montale è nata all’ombra di Primo Tempo. La prima delle lettere scritte da Eugenio a Giacomo è del 19 dicembre 1922: «Gentilissimo Signore, la grande amicizia che mi lega a Solmi mi è certo presso di Lei titolo tale che mi permette, nel presentarmi, di fare a meno di quelle smancerie e proteste in grande uso tra gli animali letterati».

Al di là dei formalismi del tempo, sorprende leggere queste parole indirizzate a un ragazzo di ventun anni al quale il futuro Premio Nobel chiede quasi con timore un parere sulle sue poesie. Da quel momento, e per i successivi venticinque anni con maggiore o minore regolarità, Montale indirizzerà a Debenedetti altre trentasette lettere.

Giacomo è invece più restio a prendere la penna per rispondere, tanto che Eugenio, ben presto rassegnato ai suoi ritardi epistolari, parla di un patto di «non corrispondenza» subìto e non voluto. Il tono di Montale è amichevole, spesso affettuoso: «Sono anch’io quanto mai felice di questa entrata “in glorioso porto” della nostra amicizia. Sento che divideremo ormai molte cose (e per cominciare molte ore) e che trarremo l’uno dall’altro vantaggio e aiuto a proseguire la nostra pochissimo consolata esistenza».

Già tre settimane dopo la prima missiva, a commento di un saggio di Giacomo su Michelstaedter, Montale si permette di azzardare qualche suggerimento: «Se mi fosse lecito darle un consiglio» gli scrive, «ed è probabilmente troppo presumere, direi che codesti Suoi scritti critici si gioverebbero di un qualche abbassamento nel tono generale, di un piglio più andante...» Poi il rapporto tra loro si fa più stretto e Montale è molto attivo nel promuovere Primo Tempo e nel fornire nomi e indirizzi di possibili nuovi sostenitori.

(...) Spesso Montale sente il bisogno di raccontare a Giacomo le sue preoccupazioni: «Io non so che cosa avverrà di me; mi metto proprio nelle mani di Zeus...» Nel maggio del 1926 Montale appare sfiduciato, tanto da pensare di rinunciare alla poesia: «Io dovrei scriverti assai meglio e di più ma conduco una vita disperatissima e non vedo spiragli per il mio avvenire. Vedo che gli altri si fanno una casa, dove io continuo a tirare innanzi alla sprovvista e senza possibilità di tirare il fiato. Puoi accusarne, in parte, anche le mie condizioni di salute che non potrebbero essere più precarie. Il risultato è quello che sai o immagini. Ma è inutile lagnarsi del destino che forse ci si merita qualche cosa di diverso e di più profondo».


In questa pagina pubblichiamo stralci di La casa dalle finestre sempre accese di Anna Folli – © Neri Pozza Editore Vicenza

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