«Non dico si debba dare fuoco agli sci, questo no». Quando hanno chiesto a Casper Ruud cosa significhi fare il tennista in Norvegia – un posto con cinque milioni di persone, una trentina di centri con campi al coperto e i ragazzi sostanzialmente divisi tra l’amore universale per il calcio e quello patrio-climatico per gli sport invernali – si è aperto in uno dei suoi sorrisi radiosi da good guy quale è reputato tra i colleghi.

«Però mi piacerebbe che qualche giovane decidesse di posare le racchette da sci e prenderne in mano una da tennis. Ecco, magari giocare a tennis in estate e sciare d’inverno». Lui lo ha fatto fin da bambino, pagando il prezzo della solitudine, perché solo il padre poteva impartirgli lezioni ma lui, stregato da quegli strani attrezzi incordati che trovava per casa, a tutti i costi voleva conquistarsi lo stesso mestiere del babbo.

Lo scorso anno, nella prima edizione delle Atp Finals al Palalpitour di Torino, per il pubblico generalista a caccia delle superstar e degli italiani – stavolta assenti – Ruud, con quel nome da staffettista dello sci di fondo che emerge dalla boscaglia col mento ghiacciato e il fiatone, pareva una specie di figurante ben retribuito (tariffa minima: 320mila dollari per giocare, anche perdendo, tre partite di girone).

Un atletico randellatore dal dritto pericoloso, ordinato nel gioco e con la fantasia ben chiusa a doppia mandata nell’armadietto. Uno buono, Casper, per cogliere risultati sulla terra battuta e far fare bella figura ai campioni altrove.

Come sul tappeto indoor del capoluogo sabaudo, un terreno quest’anno particolarmente rapido e amico del gioco d’attacco. «Lo so che non ho un tennis flashy, spettacolare, ma a me va bene così. So quali sono i miei punti di forza e so pure che le mie caratteristiche funzionano meglio sulla terra rossa, però lavoro per migliorare dove ancora non riesco a eccellere».

Come i pomodori

Coltivare un tennista in Norvegia somiglia a provarci coi pomodori. Se la pratica non è rimasta priva di candidati lo si deve al re che, intorno al 1900, ha fatto costruire un club a Oslo per dare sfogo a quella sua passione esotica.

E dire che una storia simile ha permesso, in Svezia, la nascita di Bjorn Borg e di un’onda anomala di entusiasmo tale da infestare per un ventennio la classifica mondiale di desinenze scandinave.

«In Svezia è andata così mentre da noi no, non c’è mai stato un grande sentimento nazionale per il tennis. Però mi auguro di essere io quello che può contribuire a creare interesse». Persa nella memoria degli appassionati di storia, in verità, riposa Anne Margarethe Bjurstedt, per comodità detta Molla, Mallory.

Otto volte campionessa nel torneo che oggi si chiama Us Open, la patria che l’ha accolta concedendole la cittadinanza. Allora, però, neanche esistevano televisioni per mostrare le partite.

Molto tempo dopo un certo Christian Ruud, classe 1972, giocatore col talento del gregario ma la cocciutaggine che nel tennis paga più di un braccio d’oro, si è sostanzialmente intestato il titolo di pioniere del professionismo moderno.

Da solo, negli anni di Andre Agassi e Pete Sampras, senza mai brillare ha trovato la strada per una carriera tra i primi cento giocatori del mondo e un ottavo di finale agli Australian Open 1997.

«Il primo ricordo che ho del tennis è il tifo davanti alla televisione per Rafa Nadal nella finale di Parigi 2005: eravamo io e mio padre, entrambi suoi grandi fan».

Il mancino delle Baleari stava per agguantare il primo dei suoi ventidue titoli major. Casper, diversamente dalle sorelle Caroline e Charlotte, la malattia della racchetta e pallina l’ha contratta e si è fatto guidare da papà lontano dalle piste bianche, nella quotidiana difficoltà di raccattare partner di alto livello con cui condividere il percorso di avvicinamento al mestiere di tennista.

Il ruolo di Nadal

A forza di trovare sponde in giro per l’Europa e di fare incetta di titoli junior ha colto l’occasione della vita prendendo residenza proprio a Manacor dove, dal 2016, Rafa ha aperto la sua accademia a qualche stella del tennis che si appoggia a una struttura meravigliosa – vedi Felix Auger Aliassime, sotto la guida di zio Toni Nadal – e a ragazzi le cui famiglie si possano permettere di spendere qualche decina di migliaia di euro l’anno per allenamenti, vitto e alloggio.

La consulenza informale di Nadal si è rivelata preziosa: lo spagnolo ha accettato di buon grado il ruolo di mentore per un ragazzo che mostra, in abbondanza, le doti che lui più ammira: etica del lavoro, lungimiranza, serietà negli allenamenti, contegno.

Tutto quello che non è Nick Kyrgios, insomma, per citare un fuoriclasse presente a Torino ancorché, disgraziatamente, solo per il doppio grazie alla scelta di Wimbledon di non assegnare punti come rivalsa per la decisione britannica di non ospitare tennisti russi nell’edizione 2022.

E ai Championships Kyrgios, grazie alla finale, avrebbe fatto bottino sufficiente per tentare la qualificazione anche in singolare. Alcuni fan impazziscono per gli istrioni e gli sregolati come l’australiano, un genio incostante, capace di infiammare gli animi con giocate sensazionali ma pure di sconcertare.

Come è accaduto al Foro Italico di Roma, proprio contro Ruud, nel 2019, una partita in cui Kyrgios ha fatto fuoco e fiamme salvo perdere la brocca, sfasciare racchetta e sedia – come un metallaro qualunque con chitarra e cassa – e poi andarsene, per bollare Ruud di grigia mediocrità: «Casper dice che mi sono comportato come un idiota? Il suo tennis è così noioso che capisco debba parlare di me, altrimenti la gente non saprebbe nemmeno che giochi a tennis».

Ma anche Casper ha il suo pubblico di entusiasti, scaldati non dalle spacconate ma dall’altro motore della passione, le vittorie.

La biglietteria torinese fa sapere di attendere l’arrivo di una vagonata di tifosi dal nord per le semifinali di oggi, e Ruud ci sarà: Nadal lo ha sconfitto l’altra sera ma, in una inversione di ruoli rispetto all’ordine costituito, il norvegese era già qualificato, Rafa già eliminato.

Del resto, la sua escalation nel tennis di vertice ha del clamoroso: da onesto pedalatore qual era stato bollato dagli esteti, Ruud ha acceso il propulsore della sua rincorsa al vertice con cinque titoli Atp nel 2021, le semifinali a Torino nella passata edizione e l’ingresso – storico, il padre al più era stato classificato numero 39 – nei primi dieci del ranking.

Nella stagione che sta per concludersi ha piazzato il suo nome nibelungico in due appuntamenti clou del calendario: la finale del Roland Garros, ceduta per sottomissione psicologica a Re Nadal, e il match per il titolo agli Us Open, partita che metteva in palio non solo un titolo Slam ma anche la prima posizione in classifica, persa contro il baby fenomeno Carlos Alcaraz.  

Il segreto di Pulcinella del tennis è che sta per cambiare il clima. L’era glaciale dei supercampioni arraffatutto sta per concludersi: Roger Federer se n’è andato salutando un mondo di tifosi affranti durante la Laver Cup, Rafa Nadal oramai scricchiola e il solo Novak Djokovic, a 35 anni suonati, tiene botta ma non potrà resistere per sempre al ticchettio del cronometro.

La prateria sotto i ghiacci sarà terreno di conquista per molti giovani, a differenza dei ragazzi schiacciati per vent’anni dalla triarchia più dispotica della storia di questo sport.

«Quello che hanno fatto Djokovic e Nadal nel tennis è unico, le loro sfide resteranno tra i momenti più emozionanti della storia di tutti gli sport», ha detto Ruud sorridendo, l’altra sera, durante la serata di gala di fronte ai due mostri sacri che annuivano e ringraziavano per tanta ammirazione esplicita.

Parte del sorriso di Ruud, probabilmente, era tuttavia espressione di sollievo: essere nati una dozzina di anni dopo di loro è il miglior modo per garantirsi una serena carriera da campioni senza il peso, schiacciante, di una concorrenza ingiocabile per chiunque. Anche per uno che si è fatto gambe e fiato da solo, sfinendosi i quadricipiti con le corse nella tundra.

© Riproduzione riservata