Da quasi quarant’anni Roberto Calasso è impegnato nella tessitura di un grande arazzo narrativo, cominciato nel 1983 con La rovina di Kash e attualmente arrivato alla sua undicesima parte con l’uscita, lo scorso ottobre, de La tavoletta dei destini. Per questa mastodontica creazione – chiamata per lungo tempo nei risvolti di copertina l’“opera in corso” e ora semplicemente l’“opera” – Calasso sembra aver attraversato ogni tempo e ogni luogo, dall’India dei veggenti vedici alla Parigi degli impressionisti, intrecciando fra di loro i fili delle più diverse discipline e dando sostanza a un’idea di letteratura come crogiolo di tutti i saperi.

L’undicesimo volume ci porta fuori dallo spazio e dalla storia, collocandoci sulla misteriosa isola di Dilmun, dove approdano, a nove secoli di distanza l’uno dall’altro, l’analogo mesopotamico di Noè, il leggendario re Utnapishtim di Shuruppak, e il marinaio Sindbad, protagonista di molte avventure raccontate nelle Mille e una notte. A Dilmun, Utnapishtim vive da tempo immemore; da quando, cioè, dietro il suggerimento del dio Ea, ha salvato l’umanità dal Diluvio inviato da Enlil ed è stato ricompensato con la vita eterna.

“Il Remoto” – questo il nome con cui è indicato da quando dimora solitario sull’isola – narrerà a Sindbad le storie del mondo prima del Diluvio, oramai dimenticate quasi da tutti, ma ancora conservate in tavolette d’argilla che lui stesso è andato a nascondere in una fossa prima di costruire il battello della salvezza: «Questa è una parte della storia che pochi conoscono. E sono quelli che hanno il compito di trasmettere le scritture. Tu, Sindbad, sei solo l’ultimo fra loro» (p. 24).

Mantenere l’ordine

Utnapishtim racconterà di uomini e dèi, inganni, vendette e, soprattutto, di tentativi costanti di mantenere l’ordine, un fragile equilibrio fra visibile e invisibile che per gli uomini del suo tempo era il presupposto dell’esistenza.

Fra i molti modi di avvicinarne i misteri c’è quello di provare a raccontarlo, e, proprio per questo, La tavoletta dei destini è il volume in cui la vocazione narrativa di Calasso si esprime al massimo grado, lasciando scorrere in piena libertà il flusso delle storie. Non ci sono ad arrestarlo le lunghe pause di riflessione o le secche inserzioni aforistiche che costellavano i volumi precedenti. Non ci sono neppure, alla fine del libro, repertori di fonti ai quali attingere per ricostruirne il retroterra teorico. Dal punto di vista formale, la tavoletta costituisce così un unicum nell’opera.

Le letture preparatorie, i riferimenti storici, archeologici e filosofici di Calasso sono assorbiti dalla voce narrante di Utnapishtim, irreversibilmente perduti nel fiume letterario. Calasso mette qui in azione un procedimento fondamentale in tutte le narrazioni tradizionali – dai poemi omerici al Mahābhārata – a cui da sempre attinge, l’analessi: i due protagonisti siedono vicini e si raccontano cose successe in precedenza; in un passato infinitamente lontano, per quanto riguarda i fatti riportati da Utnapishtim, molto più vicino per ciò che è accaduto a Sindbad.

Tutte le storie che compaiono nella Tavoletta dei destini andranno perciò ascoltate e seguite nella loro immediatezza, vincendo la tentazione di separarle e distinguerle, di interrogarci sulle origini sumere, accadiche o babilonesi di ciascuna vicenda. Descrivendo l’oggetto dei suoi racconti, del resto, lo stesso Utnapishtim invita Sindbad, e noi con lui, a lasciarsi guidare dal «nastro luccicante» su cui si dispongono le storie: «Le storie si concatenano fra loro come se già sapessero in quali punti disporsi. E io passo dall’una all’altra come su un unico, luccicante nastro» (p. 40).

Il nastro di Möbius

Un lungo nastro appare anche l’opera di Calasso, ma di un tipo particolare: è simile infatti a quello di Möbius, che si può percorrere in qualsiasi senso e che sempre ritorna a sé stesso, descrivendo il delicato rapporto che per lungo tempo ha legato gli uomini al divino e che a un certo punto si è interrotto.

Il Remoto spiega a Sindbad come nel tempo prima del Diluvio dèi e uomini fossero ossessionati dall’Ordine. Anche gli Anunnaki, che avevano tenuto per sé la vita e lasciato agli uomini la morte, sapevano di essere preceduti e dominati da qualcosa di perfetto e sovrastante. A questo qualcosa attribuivano la massima importanza, e cercavano di intrattenere con esso un dialogo infinito. Pensavano che l’Ordine fosse composto da una serie di elementi, i me, le “potenze” che andavano a formare ogni possibile manifestazione dell’esistente.

Perché i me fossero “compiuti” era necessario uno sforzo cerimoniale incessante da parte di uomini e dèi; niente li spaventava di più della possibilità di interrompere il contatto con l’Ordine. In un tempo imprecisato, tuttavia, qualcosa aveva interrotto il rapporto di reciproco scambio fra uomini e dèi. Il tempo dei riti, in cui qualsiasi segno nel tessuto dell’apparenza veniva interpretato come un’indicazione dell’invisibile, aveva lasciato il posto al tempo senza nome in cui i segni si moltiplicano senza comunicazioni, in cui il Caso è l’unica potenza riconosciuta ma imperscrutabile.

Vivere fuori dall’Ordine è la condizione ineliminabile degli uomini del nostro tempo, che Calasso ha icasticamente definito, fin da La rovina di Kasch, l’“innominabile attuale” – titolo anche del nono volume dell’opera dedicato a questa “età dell’inconsistenza”. Se l’umanità ha da tempo abbandonato le cerimonie, svuotando di significato i riti attraverso cui era solita celebrare il divino in forme collettive, gli dèi sono tornati a essere un puro contenuto mentale, nascondendosi in quella parte del nostro pensiero che è capace di concepire l’inspiegabile e di leggere il destino come «una rete di significati che ci precedono, ci accompagnano, ci giocano», secondo la bella definizione de La rovina di Kasch.

La letteratura, con la sua capacità di penetrare in ogni anfratto della mente e di raccontarlo, sarà allora uno spazio di ascolto, riconoscimento e comprensione di quel divino che non trova spazio nella società attuale. O almeno lo sarà in certe sue manifestazioni che in una raccolta di saggi del 2001, La letteratura e gli dèi, Calasso definiva «letteratura assoluta», alludendo a «un sapere che si dichiara e si pretende inaccessibile per altra via che non sia la composizione letteraria».

Forma della conoscenza

Letteratura come forma della conoscenza, dunque, e come terra incognita in cui si ammassano simulacri, divinità, forze abissali che dal passato premono per essere ri-raccontate. Se la nostra società ha dimenticato le liturgie che permettevano l’accesso a questa terra di nessuno, allora queste stesse forze sono costrette a manifestarsi attraversando l’opera di qualche scrittore.

Ecco perché Sindbad deve ascoltare e serbare memoria delle storie di Utnapishtim. Se il Remoto, che conosce ogni vicenda divina, rappresenta l’inesauribile vitalità del mito, Sindbad, che appartiene a un tempo in cui i rapporti con gli dèi si sono interrotti, può simboleggiare la letteratura, costretta nelle gabbie della linearità temporale: «Tutte le storie sono accadute prima del Diluvio. Dopo non c’è altro che storie di naufragi. I naufragi sono sempre un certo numero. Sette. O trecento. E finiscono sempre allo stesso modo. Mentre le storie di prima del Diluvio sono concatenate. Ancora non ne ho visto la fine» (p. 81).

In un’epoca in cui il divino può essere avvertito soltanto come finzione, certa letteratura potrà raccogliere l’eredità del mito e celarla in sé come proprio nucleo segreto. Attraverso il serrato dialogo fra il Remoto e il Marinaio, La tavoletta dei destini sembra voler suggerire che il compito della letteratura sia quello di trovare la via di accesso alla molteplicità di saperi del mito pur muovendosi su un terreno irto di ostacoli, primo fra tutti l’abitare un mondo che ha perduto la capacità di concepire l’invisibile.  

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