La pandemia ha introdotto nel nostro immaginario una serie di nuovi oggetti, tra cui il saturimetro, il termoscanner, il tampone. Come avviene con ogni oggetto, nel passaggio dalla novità alla familiarità c’è una fase di transito in cui ci rapportiamo ad esso in modo sospettoso: non sappiamo ancora quanto pervasivamente entrerà nelle nostre vite. Poi, una volta compreso pienamente il suo ruolo, lo dimentichiamo: diventa parte del nostro paesaggio psichico, disposto a divenire simbolo o a rimanere inerte sullo sfondo delle nostre esistenze. Così è accaduto ai termometri a infrarossi che ci puntano in fronte come fossimo prodotti da supermercato.

Un discorso a parte merita la mascherina. Obbligatoria, poi solo all’interno, appesa al braccio o calata sul mento, è diventata parte dei nostri corpi. Cosa c’è di più simbolico di una maschera? Dal teatro greco a Pirandello, è ben più di un dispositivo che nasconde la faccia: alla stregua di un personaggio, non solo dissimula ma si sostituisce al sé.

Nel teatro la maschera rappresenta una tipologia di persona, ma non esistono persone al di là delle maschere: ogni maschera è una tipologia ed è anche, contemporaneamente, un individuo. La maschera crea un’equivalenza perfetta tra il sé e il gruppo. Non a caso il è nato in una società in cui l’io acquista significato solo se rapportato alla società e la sua espressione è tradizionalmente scoraggiata.

Il nostro occidente ha un percorso culturale molto diverso: una volta superato il concetto di un sé legato ai ruoli sociali, abbiamo inventato un concetto nuovo di identità che altro non è che una furiosa corsa all’autenticità. Andare alla ricerca di sé stessi, essere sé stessi a tutti i costi, mettere da parte tutto ciò che non ci permette di esserlo: questa mania, alimentata dai fanatismi neoliberisti di matrice americana (e spasmodicamente banalizzata dagli scaffali di self-help delle loro librerie), ha subìto un’ulteriore svolta con l’avvento dei social.

Adesso non si rincorre più sé stessi ma il sé altrui, ovvero un sé possibile per emulazione: ne è prova il fenomeno allarmante della rich girl face, la moda che imperversa nella generazione Z di ritoccarsi chirurgicamente per somigliare a una star famosa, e farlo in modo vistoso, caricaturale, in modo che la copia sia lampante. In questo pasticcio identitario, in che modo la mascherina asseconda le nevrosi e le paure attuali?

L’ansia dei volti nascosti

Secondo un recente studio della rivista Anxiety, stress and coping, l’impatto maggiore di questo oggetto lo hanno subìto le persone che soffrono di ansia sociale. Secondo David Moscovitch, professore di psicologia all’università di Waterloo, questo dipende da tre fattori che caratterizzano questa tipologia di persone.

Uno è la propensione a nascondersi, un altro è l’ipersensibilità alle norme sociali: fin dall’inizio della pandemia la mascherina è stata politicizzata, imposta come misura di sicurezza dall’alto, diventando per chi teme di non conformarsi alle aspettative sociali un oggetto irrinunciabile o al contrario strumento di dissidenza. Dato che le norme sulle mascherine sono sempre state ambigue, fluttuanti, soggette a continui cambiamenti, il timore di giudizio non veniva mai placato, e l’oggetto mascherina restava enigmatico, cangiante.

Non solo: le persone che soffrono di insicurezze di vario genere sono solitamente restie ad assegnare significati positivi agli indizi corporei della comunicazione verbale. Dunque, di fronte ai volti altrui nascosti, è facile che assegnino alla conversazione valori negativi in quel caso completamente assenti.

Squid game

Non a caso proprio in questo periodo la serie tv più vista è Squid game, una serie coreana che, sul trend lanciato dal vincitore del premio Oscar Parasite, crea un prodotto pop a partire dal tema del divario tra ricchi e poveri. Un gruppo di disperati, assediato da debiti, viene invitato a fare una serie di giochi per bambini in cui chi vince porterà a casa un’enorme somma di denaro e chi perde verrà, letteralmente, eliminato.

Mentre i giocatori sono a volto scoperto, i somministratori del gioco e i loro superiori sono rigorosamente mascherati: maschere che riportano simboli geometrici e che vengono sistematicamente percorse da uno scanner per verificare, alla stregua di un volto, l’identità. La penalità per chi toglie la maschera è la morte.

Children dress in costumes inspired by the Netflix original Korean series "Squid Game" walk along a street to celebrate Halloween in Hong Kong, Sunday, Oct. 31, 2021. (AP Photo/Vincent Yu)

Diverso il caso dei piani alti: il grand master indossa una maschera più elaborata, che può togliersi dal volto a suo piacimento, e così anche i vip, ovvero gli americani che compongono il pubblico dei giochi e che scommettono sui malcapitati. Loro, che indossano eleganti maschere di animali dorati, possono togliersele quando vogliono, e lo smascheramento di uno di loro costituisce nella serie uno dei momenti di maggiore umiliazione, nonostante l’americano avesse già mostrato senza problemi il suo voluminoso corpo nudo.

Sorriso nascosto

La comprensenza nella serie tv di tante maschere, corrispondenti a ruoli e simboli diversi, fa pensare all’influenza che l’oggetto “mascherina” sta avendo sul nostro inconscio collettivo. Non si tratta solo di nascondere il volto, e dunque l’identità, ma anche la nostra capacità affettiva: come i mascherati di Squid Game sono i desensibilizzati, i deumanizzati, che uccidono esseri umani senza battere ciglio o li osservano con divertimento, la nostra mascherina, insieme alla prima regola pandemica del non doverci toccare, ha eliminato l’espressione affettiva dai nostri scambi: anche il sorriso è sparito.

Restano gli occhi, che non possono sopperire alla mancanza. E allora si profila un paesaggio mortifero, in cui l’affetto viene relegato solo alle parole, che in questa lacuna di immediatezza tattile e facciale finiscono speso per celarlo, perché la bocca stessa, così nascosta, diventa quasi oscena: sarà un caso che John McAfee, l’eccentrico fondatore dell’omonimo antivirus, è stato arrestato perché insisteva nell’indossare al posto di una mascherina un tanga femminile?

Estetica

Nello splendido Estetica degli oggetti, scritto nel 2006 in tempi non sospetti, l’autore Ernesto Francalanci scrive profeticamente che il simbolo della condizione postmoderna è proprio il velo: ciò che si colloca tra gli opposti, tra la copia e l’originale, tra il superficiale e il profondo.

È un velo problematico, che protegge e ossimoricamente nasconde esaltando. Allo stesso modo questo velo chirurgico con cui proteggiamo i nostri volti nasconde le nostre paure, i segnali della nostra ansia, amplificandoli. Mettiamo un nuovo confine tra il sé e l’altro: non più la pelle ma una guaina che oscura parte di noi e protegge le nostre insicurezze.

«Il volto coperto dalla mascherina è un volto che minaccia di scomparire nell’anonimato» dice Giuseppe Raniolo, psicoterapeuta e studioso del rapporto tra psiche e società. «Eppure per alcuni assume valenze diverse. Per la persona con disturbi fobici sarà un conforto, per quella con disturbi legati allo sfogo della rabbia può essere una sorta di museruola che media l’attacco. Alcuni sotto la mascherina fanno le smorfie, proprio come i personaggi dipinti da Franz Xaver Messerschmidt, lo scultore schizofrenico».

Cosa resta sotto

Remo Bodei ha scritto che la riflessione su un oggetto la trasforma da “oggetto” a “cosa”. Se l’oggetto, etimologicamente, è l’ostacolo inerte, a cui ci rapportiamo nel tentativo di inglobarlo, la cosa è la causa, è qualcosa di vivo che diventa tale nell’integrarlo nella nostra comunità attraverso la riflessione su di esso.

La mascherina, questo dispositivo così in balìa di norme e di paure, di contagi e di disagi, di zone gialle e del giallo irrisolvibile delle varianti, sballottato tra il nostro panico e i tentativi governativi di contenerlo (o disperderlo), è diventata immediatamente cosa, senza mai essere oggetto: sùbito simbolo delle fragilità che non ammettevamo di avere o che speravamo di non avere. Ora non ci resta che domandarci, quando solleveremo il velo di Maya dai nostri volti impauriti, che identità troveremo e se sapremo gestirla.

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