«Se tento di trovare una formula comoda per definire il tempo che precedette la Prima guerra mondiale, spero di essere conciso al massimo se dico: fu l'età d'oro della sicurezza». Così comincia Il mondo di ieri, il bellissimo memoriale che Stefan Zweig scrisse nel 1941, nel mezzo della Seconda guerra mondiale, ricostruendo a memoria il volto che l’Europa aveva negli anni precedenti la Prima. Se al posto di “Prima guerra mondiale” mettiamo “pandemia”, le parole di Zweig si adattano perfettamente alla condizione in cui siamo. Tutto ciò che era prima della pandemia ci sembra «un'età d'oro della sicurezza». Certamente, anche prima molti rischi minacciavano la vita di ciascuno e di tutti: dal terrorismo alle crisi economiche, dal disastro ambientale ai conflitti sociali; ma nessuno era multiforme e inafferrabile, come sembra essere il maledetto virus Covid-19.

Paure di massa

Oggi la sicurezza sembra svanita e la paura è la sola, o la principale, risposta che gli umani siano riusciti a esprimere. Una delle massime preferite di papa Bergoglio è: «Non abbiate paura». Il papa non precisa di quali paure si tratti, ma negli ultimi decenni l’Europa ne ha patite almeno due, di enormi proporzioni: quella prodotta dall’immigrazione di massa e la pandemia da Covid-19. Sommandosi, i due eventi scuotono le coscienze come forse mai era accaduto dopo la Seconda guerra mondiale e l’11 settembre. E allora, si può davvero, come vorrebbe il papa, cancellare la paura dalla lista delle grandi emozioni umane e impedirle di determinare le nostre reazioni? È possibile raggiungere la «libertà dalla paura» di cui parlava Franklin D. Roosevelt nel suo famoso discorso del 1941 sulle «quattro libertà»? Come è possibile, se l’uomo è «l’essere più pauroso al mondo»? Come sostiene Marco Filoni nel suo acuto e documentatissimo Il calcolo della paura, appena uscito solo in e-book per Einaudi.

Etologi e neuroscienziati sostengono che la paura è una risposta naturale e poco governabile. Uno dei più noti, Antonio R. Damasio, nel suo L’errore di Cartesio (1994), la colloca tra le cinque «emozioni universali» (insieme a felicità, tristezza, ira e repulsione). E vi intravvede anche una funzione positiva: prepararci a far fronte a situazioni critiche. La paura però non è solo una questione individuale. Ci sono momenti, come quello attuale, in cui è l’intera civitas ad avere paura. In questi casi, è difficile immaginare che la paura possa addestrarci a cercare risposte razionali.

La pandemia è l’ultima della lunga catena di Grandi Paure che hanno scosso il genere umano. La raccontano diversi libri, come la bella Storia della paura in Occidente di Jean Delumeau, ma stavolta la Grande Paura ha una sua novità. Consiste nel fatto che, dopo la Spagnola (1918), è la sola che non abbia colpito questa o quella plaga del pianeta, ma l’umanità intera. Per l’enormità e l’ubiquità del rischio, stavolta «fatichiamo a trovare una misura» di quel che accade (come dice Filoni). Inoltre, la pandemia ci ha costretto ad arrenderci a un’idea che appariva inconcepibile a chiunque credesse nell’illimitato progresso della specie umana: la prospettiva di altri probabili spillover, i salti di microrganismi dagli animali all’uomo che sono all’origine di queste epidemie. 

La Grande Paura chiama in causa soprattutto la nostra salute e i rischi che la insidiano, ma anche molti aspetti della vita associata, che improvvisamente appaiono impropri e illegittimi. Sul piano personale, dà un colpo fatale alla socievolezza: siccome chiunque altro può essere portatore del virus, è meglio tenere tutti a distanza. Negli Stati Uniti (lo ricorda Filoni) la pandemia sta coincidendo con un incremento record della vendita di armi. Tutti i luoghi di aggregazione numerosa, siano essi di lavoro, di intrattenimento o di viaggio, sono colpiti. Il desiderio di viaggiare, uno degli emblemi della modernità affluente, è improvvisamente paralizzato, insieme alla complessa industria che ne dipende. Le riunioni di famiglia e di amici, le feste e le celebrazioni (dai compleanni ai matrimoni ai funerali), le gite e gli sport collettivi sono sconsigliati o proibiti. I calciatori giocano da soli negli stadi deserti. I medici si rifiutano di visitare i pazienti a domicilio. I ragazzi e le ragazze fanno scuola da casa, dinanzi a uno schermo di computer.

Ci sono anche risposte di sfida, sotto forma di teorie naïve o di comportamenti personali. Tra le prime, la convinzione inestirpabile che in famiglia non ci si infetti. Tutti abbiamo sentito di incontri di congiunti, tenuti all’insegna tranquillizzante del «Siamo solo noi della famiglia». Tra i comportamenti, spicca quello dei giovani che, in tutto l’occidente, ignorano le restrizioni in nome di rituali collettivi che sembrano ormai insopprimibili, quasi dei diritti politici, come l’aperitivo e la movida. Quel che in realtà stanno facendo è spendere la loro “vitalità”, la cieca energia che spinge la vita umana (lo vide bene José Ortega y Gasset) a continuarsi anche a costo di pericoli fatali. Georges Bataille la chiamò «la parte maledetta»: il residuo di energia che non si spende in opere e attività ma va comunque sfogato. Si tratta in realtà di una sorta di gioco, in cui si intrecciano due dei tipi che Roger Caillois nel suo straordinario I giochi e gli uomini (1958) indicò con nomi greci: il gioco di àgon (cioè “competizione”) e quello di ìlinx (cioè “vortice, vertigine”). Arrischiare la vita, propria e altrui, per un’ora di compagnia con un bicchiere di birra in mano è insieme una sfida alla malasorte e una breve vertigine in cui ci si dimentica dei guai. La polizia ha un bel reprimere: la vitalità è più forte.

Il ruolo delle istituzioni

La pandemia ci ricorda anche che l’invenzione di una parte delle istituzioni associative è prodotta dalla paura e dal bisogno di tenerla a freno. Questo è uno dei tanti terreni in cui appare chiaro che molti fenomeni politici non sono che conseguenze o riflessi di fenomeni naturali. In questi giorni si evoca spesso, a ragione, il filosofo seicentesco Thomas Hobbes, l’autore del Leviatano, per la sua idea secondo cui la società stessa nasce dalla paura. Secondo quest’ipotesi (che anche Filoni menziona), la società è fondata non sul desiderio nativamente buono di aggregarsi per cooperare a fini simili, ma sull’impulso pauroso di sorvegliare il comportamento dell’altro per salvare la propria pelle. Hobbes descrive questa relazione con un linguaggio forte: siccome tutti gli uomini sono «nello stesso pericolo» e percepiscono la «generale uccidibilità» (terribile termine, in inglese killability), organizzano società di mutua sorveglianza, che poi diventano società tout court.

Ci sono però anche risposte strettamente politiche. Da una parte, nelle situazioni di paura i governi impongono limitazioni forzose di libertà e creano dittature parziali provvisorie. Il generale Figliuolo non ha certo l’aria del dittatore, a dispetto della sua usanza di presentarsi dappertutto in mimetica; ma la sua carica di commissario straordinario è indiscutibilmente una dittatura provvisoria. Ancora maggior risentimento crea la figura del lockdown, che è stata attaccata sia da fior di filosofi, da posizioni di sinistra, sia (con singolare convergenza) da movimenti di destra, anche radicale. Ciò pone un problema enorme, che interpella sia i singoli sia le Costituzioni: quanta libertà siamo disposti a cedere per essere protetti, dalla paura e dal rischio?

La paura rende anche più esposti alle informazioni false e alle fake news. La storia mostra che queste non sono un’invenzione dell’era digitale. La più famosa fu forse quella che si scatenò nelle campagne francesi poco dopo la Rivoluzione del 1789: la falsa notizia di un’invasione di briganti stranieri che venivano a uccidere i contadini per vendicare la nobiltà danneggiata dalle rivolte. Ci fu chi si rivolse al signore in cerca di aiuto. Altri usarono i forconi e le falci proprio contro di lui facendogli pagare con la vita i suoi privilegi.

Considerazioni come queste suggeriscono che non è facile tenere a bada la paura, meno ancora quando è collettiva e magari manovrata da qualche mestatore (meneurs de foules li chiamava Gustave Le Bon nel suo Psicologia delle folle, 1895) che la sfrutta ai suoi fini. La paura agisce come un allucinogeno: ingigantisce e deforma i fenomeni. Ma non è possibile, e forse neppure utile, cercare di reprimerla. Che cosa può sciogliere il nodo e trasformare quell’energia in un movente positivo e in una forza razionale? La fede, come propone Bergoglio? Oppure, più efficacemente, la cultura, l’informazione e la conoscenza?


Marco Filoni è autore del libro Il calcolo della paura, edito da Einaudi e pubblicato in formato e-book

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