“A cosa serve il latino?” è una domanda che arriva nel dibattito pubblico in maniera scomposta, con profluvie di istantanei editoriali allarmati al seguito, ogni volta che il ministero pubblica dati sulle iscrizioni agli istituti superiori, in cui si vede una progressiva contrazione del liceo classico e del liceo scientifico tradizionale, quello con il latino. È successo per esempio due giorni fa.

«Ma prof, ma a cosa serve il latino?» è la domanda che chi insegna lettere si sente rivolgere un numero di volte proporzionale alle ore di latino erogate nel corso della carriera. In questo caso da quindicenni costretti a mandare a memoria la regola dei complementi di luogo con i nomi di città e piccola isola me lo aspetto anche. E questo credo anzi sia abbastanza fisiologico.

Non capita a tutte noi, dopotutto, di fermarci e chiederci – mentre stiamo facendo qualcosa di faticoso – se vale la pena spendere così tanta energia? Mentre stiamo salendo il monte e la strada non accenna a spianare e il fiato si fa corto e magari si suda pure perché il sole picchia: non c’è un momento in cui, ferme a riprendere fiato, non ci viene da pensare se la vista in cima meriti davvero tutta la fatica dell’ascesa? E qualcuno dirà che non è l’arrivo ma la strada che conta. Ma è una cosa che si dice sempre a posteriori.

È un po’ lo stesso con il latino. Chi dopo il liceo è andato a studiare giurisprudenza, medicina o ingegneria, ha spesso conservato nei confronti del latino la reverenza che si ha verso l’aguzzino di cui ci si è liberati: l’antico terrore che, grazie al peso degli anni, si addolcisce di nostalgia. E, soprattutto, germoglia rigogliosamente questa idea che se sul latino ci ho sofferto io ci dovrà soffrire anche la generazione dei miei figli e delle mie figlie. Si sopravvive, alla fine, ci si tempra. Ed è qui che, di solito, mi vedo costretta a interrompere il dissertare nostalgico perché no, c’è chi non sopravvive per niente.

Non sopravvivono spesso le ragazze e i ragazzi figli di genitori non italiani. Non sopravvive chi non può permettersi le ripetizioni. Non sopravvive chi incontra come insegnanti “le vestali” delle lingue classiche, che ancora insegnano il latino a suon di due e di liste di complementi mandate a memoria.

Prima di stracciarsi le vesti per la regressione del latino, lanciare geremiadi sulla nostra civiltà ormai perduta, possiamo prendere in considerazione il fatto che se non ci fosse l’indirizzo di scienze applicate al liceo scientifico perderemmo forse un numero importante di diplomati nelle discipline STEM di cui pure lamentiamo continuamente la mancanza?

La domanda degli studenti, in fondo, non è così peregrina (e in effetti le loro domande di senso non dovrebbero mai essere liquidate frettolosamente). Ed è forse la stessa domanda che, come docenti, dovremmo porci quotidianamente. E se – come dico di solito in classe – iniziare una domanda con a cosa serve è fuorviante perché ci inserisce subito all’interno di un ragionamento utilitarista (lo stesso che governa, temo, le scelte di orientamento di questo governo), è pur vero che domandarsi perché e subito dopo come può aprire alla didattica, non solo del latino, prospettive inaudite. La risposta che tendo a preferire è sempre la stessa: insegnare per liberare.

A chi volesse esplorare questa prospettiva, consiglio Tutte storie di maschi bianchi morti, di Alice Borgna, che pone in modo serio il tema dello studio e dell’insegnamento delle lingue classiche, anche alla luce del fatto che studiare il latino per leggere i grandi classici vuol dire oggi fare i conti con il fatto che, per esempio, quei classici sono prodotti di una cultura maschilista e fondata sullo schiavismo.

A quei maschi bianchi vivi invece che continuano, oltranzisticamente e fuori tempo massimo, a propugnare il latino e il greco come strumenti di selezione sociale che portino a un’eccellente e motivata riserva indiana non possiamo che dire che abbiamo fatto la scuola media unica 60 anni fa. Si rassegnassero a farci pace.

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