L’ordine nuovo

«Ho cominciato a pensare a Nuevo Orden cinque anni fa, e ho ultimato la sceneggiatura tre anni fa. Per me è una sorta di monito: “Non arriviamo a quel punto”. Cinque anni fa non avrei mai pensato che al momento dell’uscita il mondo sarebbe stato così vicino a questa distopia. La pandemia ha ulteriormente aggravato la situazione: i gilet gialli in Francia, i disordini in Perù e Colombia, fino al movimento Black lives matter. Ogni paese, per motivi diversi, affronta queste situazioni, perché la gente è scontenta, e ho paura che i governi si approfittino della situazione».

(da un’intervista al regista Michel Franco, 2020)

Circa tre settimane fa ho visto Nuevo Orden, il film di Michel Franco Leone d’Argento quest’anno alla Mostra del Cinema di Venezia. In un Messico distopico e futuribile (l’azione è ambientata in un assai prossimo 2021) le distanze fra classi sociali si sono ingigantite a tal punto che è ormai in atto una rivoluzione di popolo. Tutto il prologo, teso e violento, è ambientato nella villa di una famiglia di ricchi dove è in corso una festa di matrimonio. Presto un manipolo di armati, proveniente dalla guerriglia di strada, scavalca le mura della villa e comincia a sparare sugli invitati. Con l’aiuto dei domestici, vengono rubati soldi e gioielli, torturati e sequestrati i partecipanti alla festa di nozze.

Il film è molto bello nei primi venti minuti: tutta la sequenza dell’irruzione all’interno della villa lascia senza fiato, per movimenti di macchina, ritmo, scrittura. Poi, con la scusa di seguire la vicenda della primogenita rapita dai rivoluzionari, il film cade in una specie di più convenzionale costruzione di parabola, come a voler dimostrare che ormai non c’è più speranza per l’umanità e che ogni rivoluzione è destinata da sempre a essere ridotta alla sequenza sollevamento di popolo – terrore – restaurazione (ovvero sfruttamento della spinta popolare di rottura ai fini del ristabilimento di un ordine superiore peggiore di quello di partenza da cui il sollevamento aveva avuto luogo).

Senza dubbio è un film che stimola riflessioni, soprattutto in questo momento di buriana universale. A caldo ho pensato che la sua pecca principale fosse nel suo ridurre tutto a un metro di nichilismo e distruzione, secondo una poetica comune ormai alla maggioranza dei prodotti audiovisivi occidentali, e che francamente mi ha stancato.

Cinismo e disillusione

Cinismo e disillusione permeano film, serie tv, romanzi, canzoni, arte, ormai da diverso tempo. È come se chi sta dalla parte della creazione di contenuti non riuscisse più a uscire da una formula di rappresentazione del presente (e dell’ipotetico futuro, come in questo caso) obbligatoriamente apocalittica.

Io sono convinto che molti di questi creatori di contenuti siano ormai coscienti del livello di “inflazione” di tale modello. Però – sembrano volerci dire scrittori e sceneggiatori – non essendo il mondo mai stato così evidentemente schifoso, non possiamo certo tergiversare o indorare la pillola; questo non è il tempo del sogno, ma della verità e dell’aderenza al reale: se il mondo è oggettivamente violento, cinico e disperato, non saremo certo noi a tradire, e vorrà dire che lo rappresenteremo così. Da qui la proliferazione dell’ultraviolenza (come sono cambiati gli horror, e come l’horror è ormai tracimato nel resto dei generi, annullandoli!), dell’iperrealismo, del sad ending, e il conseguente suo facile trasformarsi in moda, cliché.

Mentre il film, e certe sue immagini forti, mi tornavano alla testa, come tutti cercavo nel frattempo di continuare a vivere, o, ancora meglio, sopravvivere. Nelle tre settimane successive alla visione del film è successo di tutto: episodi di cronaca nera bestiale, ritorno di attentati terroristici islamici, impennata dei contagi di Covid-19. I cinema e i teatri sono stati chiusi, la paura è cresciuta, e soprattutto un decreto del governo ha scatenato una reazione violenta nelle città.

A Milano, su un muro sotto casa mia c’è una scritta nuova che dice “morirete tutti”. Nei giorni scorsi, nella mia e in altre città italiane ci sono stati disordini e scontri con la polizia da parte di manifestanti che protestavano contro i provvedimenti governativi volti a combattere la diffusione esponenziale dei contagi. Sempre non lontano da casa mia, in via Melchiorre Gioia, un gruppo di protestatari ha cercato di raggiungere il palazzo della regione ma è stato fermato dalla polizia. C’è stato qualche tafferuglio e sono volate bombe carta. A Torino invece i rivoltosi hanno spaccato la vetrina della boutique di un famoso marchio di lusso, secondo alcuni più per rubarne il contenuto che per atto simbolico.

I provvedimenti del governo possono essere giusti o meno, non entro nel merito, non mi interessa discuterne qui. Faccio parte fra l’altro di una categoria molto colpita da codesti provvedimenti, per cui rischierei di entrare troppo nel personale.

Quello che mi chiedo è piuttosto che natura abbia questa ondata di odio, questa rabbia diffusa. Chi ha spaccato la vetrina a Torino, chi è sceso in strada a Napoli, chi ha cercato di espugnare il palazzo della regione a Milano? E se i manifestanti avessero preso il palazzo della regione, cosa avrebbero fatto? Avrebbero fatto inginocchiare i governatori? Puntato loro una pistola alla tempia? Rivendicato l’impresa come gesto politico? Di che tipo, e nel nome di chi?

Ho cercato di guardare i filmati sulla rete, per cercare di documentarmi e di capire meglio. Continuo a essere tormentato dal dubbio, ma una cosa almeno credo di poterla affermare con certezza: in quei filmati non ci sono solo i ristoratori, i baristi, i gestori di pub, localini, club, discoteche; non ci sono soltanto i gestori dei teatri, non ci sono i lavoratori del mondo della musica e dello spettacolo. Non ci sono le specifiche vittime del coprifuoco. Non ci sono soltanto loro. C’è di più, o c’è di meno, decidete voi. Questa protesta mi pare il proseguimento inevitabile di una feroce frustrazione che in questo paese è già presente da tempo.

Sento tirare una brutta aria, it’s not dark yet, but it’s getting there, canta Dylan, e come sempre ha ragione. È da tempo che serpeggia un fascismo non nominale ma concreto, un’onda populista, trasversale, interclassista. La famosa “protesta contro la politica”: quanti anni sono passati da quando noi masse stanche delle ruberie di Roma abbiamo “istituzionalizzato il Vaffanculo”? Sembrano secoli. 

Giubbotti neri

Ho visto molte facce nei filmati su YouTube che non appartengono ai baristi penalizzati dalla chiusura delle sei.

Ho visto giubbotti neri, gente senza bandiera (o forse di bandiera ce n’è una sola, da sempre, che unisce chi dall’estrema sinistra alla destra ha attraversato schemi e categorie rimanendo sempre l’inequivocabile e violento sé stesso), ho visto ombre. L’ombra del mio amico professore di liceo sedicente progressista infuriato contro il governo, l’ombra del mio amico Carlo che nel 2012 partì per aprire un chiosco in Venezuela (tornando sconfitto dopo neanche un anno) e che ancora vive con la pensione della madre, l’ombra di tanti ragazzi che conosco, l’ombra di un potenziale me.

Mi pare di capire, osservando questa gente che protesta per strada guardando sempre bene in camera, che l’ombra sia per la prima volta cosciente della propria condizione umbratile. Se chi ha spaccato la vetrina del Famoso Brand lo ha davvero fatto per rubare i vestiti del Famoso Brand e tenerseli per sé, allora abbiamo la prova che chi lo ha fatto pensa “mi avete fatto sognare questo, mi avete fatto credere di potermelo permettere, e adesso me lo togliete”, oltre che un altrettanto tragico “se mi avete fatto credere soltanto in questo, che colpa ne ho io?”.

Potrei sbagliarmi, non sono un sociologo, un filosofo o uno storico, ma mi pare che il modello economico basato sulla crescita infinita dei mercati sia ufficialmente entrato in crisi. Faremmo meglio a cercare delle alternative all’economia come unica chiave di interpretazione del reale.

Abbiamo dato la carica ufficiale di “scienza” a una disciplina che scienza non è, e ci troviamo in cambio un occidente tecnologicamente avanzato ma stravecchio e bollito dal punto di vista delle rivoluzioni di pensiero. Stanno per finire i soldi, e le idee sono estinte da un pezzo. E non è la situazione migliore in cui stare: basta un colpo di vento (o un batterio, un virus, un’epidemia) a buttar giù tutto, lasciando via libera agli Ordini Nuovi.

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