Dai vestiti ho imparato a mentire. Sono ricca, ricchissima. Sono una pezzente. Faccio il mio ingresso nei negozi accolta come Gesù a Gerusalemme, con un gran sventolio di palme. Osanna il figlio David: voglio tutto doppio, in mille colori. Fulmino i soldi che ho, da sempre. Mai introiettato il concetto del risparmio. Nella mia famiglia muoiono come mosche, senza godersi nulla: a che serve risparmiare se tanto si muore?

Quando è il momento di pagare dico: “Faccio un po’ con il bancomat, un po’ con la carta, e il resto in contanti”. A quel punto capiscono che sono una poveraccia. Spariscono i sorrisi, si prosciugano le smancerie.

L’idea di rinunciare a qualcosa mi rende pazza. Non ho mai provato a smettere, non mi sono sentita mai in colpa. È da una vita che studio. Dai vestiti ho imparato la Storia. Ricevo la mia prima lezione di stile da Maria Antonietta. Da ragazzina, leggo da qualche parte che, la notte prima della decapitazione, i suoi capelli diventano improvvisamente bianchissimi per il terrore. Così, la mattina successiva, la regina di Francia chiede un paio di scarpine bianche per andare alla ghigliottina, da intonare alla paura.

Imparo l’emancipazione femminile da Elizabeth Arden: è lei che nel 1912 regala, con il suo rossetto, labbra rossissime a un esercito di suffragette di bianco vestite che sfila per il diritto di voto alle donne.


Riconosco le crisi economiche dagli orli delle gonne, che si accorciano o si allungano. Ho sempre fame: “Potrei avere ancora un po’ di minestra, Signore? Sono l’Oliver Twist dei vestiti: date tutto a me, ne ho davvero bisogno”.

Arrivo alla Mostra del cinema di Venezia da impostora. Soggiorno all’Excelsior, ovvio. Niente airbnb in zona Giardini, niente vaporetti malinconici. Ho un marito in giuria: datemi i camerieri dai passi felpati e le sfingi che portano al mare.

Questo è il mio osservatorio: come i vecchi guardano i cantieri, io guardo le divinità.

Aspetto al varco Tilda Swinton, penso che se la guardo da vicino forse capisco come fa a portare la leggenda con la stessa leggerezza con cui indossa le sue giacche pigiama verde ramarro. La seguo, aspettiamo l’ascensore insieme. Spero che succeda come in Grey’s Anatomy: quei lunghissimi viaggi in ascensore in cui tutti fanno in tempo a baciarsi, operare a cuore aperto, morire, dire cose intelligenti. Forse, se allungo una mano e la accarezzo, capisco se s’infrange in mille pezzi perché è fatta d’incantesimo. Solo che lei si scoccia di aspettare, e va a piedi. E mi lascia lì, ad annusare la scia di immortalità che regala con generosità, tanto ne ha in abbondanza.

La sera, vestita come un pierrot, riceve il Leone d’oro alla carriera, e racconta: “Sono la ragazzina punk fissata con il cinema, che fa l’autostop per arrivare alle colline, ai piedi delle vette dei grandi che hanno preso prima di me questo premio, e ad ogni modo, io sto appena iniziando”. Il giorno dopo è la Regina delle nevi, emana pulviscoli di purezza dal carapace che è il suo cappotto cesellato bianco, e penso che quello che ha detto sul gender - “Il sesso si indossa e si toglie, come un vestito”- racchiuda molto della sua esistenza, cinematografica e non.

Cosi al Lido è tutto un “Sto con Tilda: Wakanda forever”, “No, io preferisco Cate”. Siamo i Conigli Morti e i Nativi di Gangs of New York, eserciti pronti a scendere in battaglia per difendere la propria imperatrice planata per sbaglio sulla terra da una galassia lontana lontana…


La Blanchett, presidentessa di una giuria che deve traghettare, più che il cambiamento, l’idea del miracolo di essere tutti qui, mascherati e felici, è perfetta. Luminescenza di un altro emisfero, dolcezza, impeccabilità stellare, ma se Cate sembra volere che gli occhi scivolino sui tessuti, Tilda sembra dirti che gli occhi devono restare impigliati sui corpi. Le linee pulite, i colori misurati di Cate combattono con l’eccesso policromico e fragoroso dell’altra.

Nella Blanchett avverti il controllo, una sicurezza acquisita dal pensiero, ma c’è una lieve fatica nel rigore con cui tutto questo si tiene insieme, intravvedi forcine a sostenere pettinature plastiche, mentre Tilda arriva direttamente dalla spiaggia con uno psichedelico colore biscardiano, si passa le mani nei capelli ed è subito Woodstock, l’uccellino di Snoopy, in sfregio a tutte le onde morbide e eleganti del mondo.

E se Cate con il suo splendore ci inibisce, Tilda tutto ci perdona, e tutti i nostri errori tricologici benedice. Sono “Ch-ch-changes” bowiani, in fondo.

Tiriamo un sospiro di sollievo con Ludivine Sagnier, la compagna di classe del liceo bella, bellissima, che fa caracollare papi e che è super simpatica soprattutto quando ti accorgi che non vede l’ora di togliersi i tacchi e mettersi le friulane perché ha i piedi gonfi.

Siamo tornati sulla terra, dove c’è Matt Dillon che è pazzo della tachipirina, e quando vede che ne tiro fuori una per sopravvivere all’aria condizionata che ti fa sentire a New York senza prendere l’aereo si illumina: “Me ne dai una? Mi piace da matti”.

Per il resto, al momento non ho rubato l’argenteria. Ma ho fatto scorta di campioncini per il bagno.

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