«Io credo, nelle fiabe», dice Kata Wéber. «È nelle principesse che non credo». “Autenticità” è la parola che la sceneggiatrice ungherese ripete e invoca più spesso. A conferma del suo unico credo - cioè la cruda verità delle emozioni - Wéber ha messo dentro Pieces of a woman anche un pezzo di sé, della sua storia. C’è infatti la perdita, vera, di un figlio, appena dopo averlo partorito in casa. Poi il trauma vissuto da lei e dal compagno, il regista Kornél Mundruczó, si sovrappone con altre storie e diventa fiction. In versione cinematografica, è con gli attori Shia LaBeouf e Vanessa Kirby, che per l’intepretazione ha avuto una nomination agli Oscar e la coppa Volpi a Venezia un anno fa. Come pièce, è affidata alla compagnia polacca del TR Warsawa.

Quando ha capito che anche la sua storia personale andava messa in scena?

Avevo un dialogo in mente, ma mi pareva troppo dark, cupo e doloroso. Non riuscivo neppure a leggerlo ad alta voce. Non è facile confrontarsi con qualcosa di problematico quando lo hai pure vissuto. Kornél mi ha spronata: «Si percepisce che la storia è nella stanza, anche se non riesci a pronunciarla».

Lei lavora con le parole. Scrivere, della storia propria o altrui, cura le ferite, fa elaborare traumi?

Quando crei qualcosa non sai quali reazioni susciterà; è sempre una scommessa. Con Pieces of a woman, mi ha sorpresa quante persone ci abbiano cercati per dirci che avevamo raccontato anche la loro storia. Ho ricevuto messaggi persino dal Brasile, di donne che mi dicevano: «Ho dovuto aspettare più di cinquant’anni per vedere rappresentata la mia esperienza». Se qualcuno ti ringrazia, e ti dice che hai fatto qualcosa che è importante per la sua vita, non so se ciò si chiami curare le ferite, certo è che vale la pena averlo fatto.

Questa pièce non è autobiografia pura: parte dalla sua storia ma si trasforma alla luce delle esperienze di altre donne. In che modo ha raccolto i loro vissuti?

Sentivo la necessità di confrontarmi, ma non ero certa di poterlo fare: avevo la sgradevole sensazione di utilizzare le persone per i miei fini, anche se artistici. Ho fatto ricerche. Ho guardato tonnellate di materiale video, le riprese di sessioni di gruppo con terapisti, ho parlato con altre donne. Lì ho capito che il mio era un pregiudizio errato: in queste conversazioni c’era amore, grazia; non si trattava di entrare in un mondo tetro ma di conoscere persone che attraverso l’esperienza di perdita ora vedevano la vita con altri occhi. Ho cambiato prospettiva: non era la perdita ma l’amore, la vera chiave della loro storia.Quando parli di ciò che hai perso devi parlare anche di ciò che ti è appartenuto. Il dramma quando perdi un figlio è proprio che senti ancora una connessione profonda – che altro non è se non l’amore – anche se la parte materiale di quel legame viene meno. L’amore però ti rimane addosso.

Sarebbe stato possibile per uno sceneggiatore uomo narrare tutto ciò in modo altrettanto esatto?

Io non penso che soltanto le donne possano raccontare storie di donne. Credo però che sia necessario andare in profondità fino al livello più emozionale di un’esperienza, e tutto questo se sei donna è più spontaneo.

Intende il ruolo di sceneggiatrice in chiave femminista?

Vuol sapere se credo di stare facendo qualcosa di femminista? Sì, forse sì, lo faccio. Ma anzitutto io credo nell’onestà. Per me è l’onestà il presupposto di ogni mia lotta femminista: chi lotta per le donne deve essere onesto al cento per cento a cominciare da se stesso. Io credo nelle fiabe ma non nelle principesse. Voglio raccontare storie di donne per ciò che loro sono davvero: è il mio modo di intendere la mia personale lotta femminista.

Sembra che per lei la fiction esista in funzione dell’autenticità.

Sì per me è fondamentale, e non significa riferire storie reali, essere precisi nella cronaca di un’esperienza realmente vissuta. Vuol dire al contrario saper cogliere il lato universale di una storia, andare all’origine, dentro il nucleo di emozioni più profonde e condivise. Più che storie reali, le mie sono storie iper-reali: raccontano una realtà che è più grande di loro.

A proposito di storie universali, la versione filmica di Pieces of a woman è ambientata a Boston, quella teatrale in Polonia, paese dove il diritto all’aborto è sotto attacco. Cosa accomuna i contesti?

All’inizio immaginavo che la storia avesse come protagonista una famiglia ungherese di origine ebraica. Per il film in lingua inglese abbiamo scelto Boston che ha una forte comunità ebraica. La storia raccontava traumi intergenerazionali, e in tal senso l’esperienza dei sopravvissuti all’olocausto si intrecciava con quella della perdita di un figlio. La vivono più donne di quel che si immagina, una su quattro; ma il tema rimane un tabù, in particolare nell’est Europa. Quando abbiamo preparato la pièce, erano in corso le proteste delle donne contro le restrizioni al diritto all’aborto. All’epoca sono stata anche tentata di creare un’opera dedicata a questo. Ma mi sono detta che non c’era la giusta distanza, avrei rischiato di fare cronaca e non arte.

Parlavamo di storie di donne scritte da donne. In Polonia politici maschi come il leader del partito ultracattolico Pis, Jaroslaw Kaczynski, stanno decidendo del corpo delle donne. L’arte può opporre resistenza a questo?

L’arte è un ponte: può farti capire emozioni alle quali altrimenti non avresti accesso. Uno dei miei personali modi di ribellarmi a tutti quelli, maschi e non, che vorrebbero decidere al posto nostro le sorti nostre e dei nostri corpi, è quello di denunciare la oggettificazione delle donne.

In Pieces of a woman dove emerge questo j’accuse?

Nel fatto che quando stai per diventare madre percepisci che tutti hanno anche una opinione su come tu dovresti essere madre. Io ho sentito fortemente queste aspettative addosso. Ancora una volta, il diritto all’autenticità è un diritto essenziale. Il modo stesso in cui diamo alla vita i figli è molto ospedalizzato, quasi capitalistico: devi riuscire al meglio, devi risolvere qualsiasi problema in modo efficiente. In generale non condivido affatto quando lo Stato e a volte anche la famiglia si permettono di passare sopra il diritto delle donne di decidere del proprio corpo. Non è corretto.

Cosa pensa di ciò che è successo all’università di teatro e arti filmiche di Budapest, dove lei si è formata? Studenti e accademici hanno protestato a lungo contro i tentativi di irreggimentarla. Formalmente, Orbán la trasforma in fondazione privata. In sostanza, il governo sceglie il board.

Dopo le proteste, l’accademia è stata divisa. L’anima di quella che c’era prima si è trasferita da un’altra parte, non ha alcun supporto dal governo e trova aiuto in università straniere che le consentono di rilasciare diplomi con una qualche validità.

Poi c’è la nuova struttura, che porta il nome di quella storica ma è diversa in tutto, a cominciare dai professori. Trovo inammissibile quel che il governo ha fatto, e anche io ho protestato.

Cosa rappresentava per lei quell’accademia?

La mia alma mater, il posto dove ho incontrato le persone con cui poi ho condiviso la mia storia. Non è mai stata un’università con grandi sostegni, è sempre stata povera; ma prima che il governo ce lo scippasse, quel luogo aveva un’anima.

Lei a Venezia ha anche esibito una maglietta di protesta. Può esistere un’arte senza il presupposto della libertà?

Voglio pensare che i ragazzi che studieranno nella nuova università troveranno comunque il modo per percorrere la loro strada: il talento prima o poi la sua via la trova. Ma la t-shirt l’ho esibita perché quella vicenda mi tocca. E il partito in Ungheria non l’ha presa bene

Cioè? Ha avuto ripercussioni?

Quelli del partito al governo hanno detto che facciamo progetti coi soldi dello stato e quindi non dovremmo fare politica. I “soldi dello stato”, che peraltro spesso ci vengono negati, sono i soldi pubblici, della gente. Purtroppo una politica fatta in questo modo, per il potere, in modo divisivo, non fa che spaccare il paese.

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