La trama si svolge in un doppio contesto, gli anni del fascismo e della resistenza, e il 1973. Fra i due c'è un legame intimo svelato nelle ultime pagine. Nel libro ci sono due fratelli, uno sceglie la lotta armata clandestina, l'altro vorrebbe emularlo, è forzato a fiancheggiarlo finché non viene reclutato, si rassegna a una solidarietà tragica. Francini è nata qualche anno dopo l'ultima pagina del libro, il suo è un romanzo che maneggia la storia
Mezzo secolo fa, a un anno di distanza l'uno dall'altra, due giovani fiorentini, fratello e sorella, morirono uccisi dalle forze dell'ordine. Lui si chiamava Luca Mantini, era stato studente universitario, aveva aderito a Lotta Continua, poi, incarcerato dopo una manifestazione, aveva legato con i detenuti comuni politicizzati. Impaziente di azione, aveva fondato un collettivo carcerario, poi confluito nei Nap.
Era bello, amato dalle ragazze. Il 29 ottobre del 1974, con altri quattro, rapina una banca fiorentina: i carabinieri li hanno aspettati, c'è uno scontro a fuoco, Mantini, 28 anni, e un ventenne irpino che mi era caro, Sergio Romeo, un'adolescenza in carcere, restano uccisi. Lei, Anna Maria Mantini, sorella di Luca, ha 21 anni, è cattolica, impegnata fra le scout.
All'obitorio promette di continuarne l'esempio. La sera dell'8 luglio del 1975, a Roma, dove si è trasferita, rientra a casa: la aspettano sei agenti dell'antiterrorismo, uno dei quali la uccide con un proiettile nel viso appena ha aperto la porta. (L'autore del delitto resterà paralizzato l'anno dopo in un agguato dei Nap).
La commozione fu enorme. La fedeltà di una sorella – il nome di Antigone tornava alla memoria – a un fratello maggiore, e di una giovane donna a un uomo. Il sessantaduenne Vasco Pratolini, che della Firenze operaia e proletaria, e delle Murate, era stato, nel romanzo Metello, il più vero interprete, cercava dolorosamente un linguaggio appropriato al mondo, e al proprio posto, mutato.
Da anni aveva il titolo, Malattia infantile, per un romanzo che sarebbe diventato il quarto episodio della Storia italiana. «Mi interessa... raccontare ora il momento della Resistenza. Poi la spirale grigia degli Anni Cinquanta. E il Sessantotto, naturalmente» – così nel 1974.
Racconta il suo amico e curatore Francesco Paolo Memmo: «Accade qualcosa, nel 1975, che scuote Pratolini dal torpore in cui è caduto. Quando i giornali del 9 luglio riportano la notizia della morte di Anna Maria Mantini – una ragazza (ventiduenne) nata nella sua Firenze, uccisa nella sua Roma un anno dopo che la stessa sorte era toccata a suo fratello...».
Le intenzioni di Pratolini
«Se oggi – scrive in una lettera – mi volessi disporre a raccontare una storia dei nostri giorni ambientata a Firenze, di sfondo ci sarebbero le lotte operaie di questi anni... ma al centro l'avventura esistenziale di quella ragazza nappista fiorentina fulminata qui a Roma da un poliziotto mentre infilava sola e indifesa la chiave nell'uscio di casa. Non so nulla di lei se non quello che ho letto sui giornali, e mi basta per ritrovarla nelle mie stesse strade oggi, con le sue verità stravolte, la sua determinazione, la sua vita bruciata in pochi anni, lei e suo fratello.
Certo non ne uscirebbe un libro come quello scritto da Stajano su Serantini, lei non era Serantini, ma una ragazza di Firenze oggi, con addosso tutta Firenze e il mondo, Vietnam Portogallo Spagna Cile Italia, un eroe del nostro tempo, il quale vedeva tutto in positivo nella sua allucinazione... Per me il capitolo Firenze è chiuso e solo attraverso questi varchi mi ci potrei riavvicinare». (Il libro di Stajano su Serantini, Il sovversivo, era posato sul comodino di Anna Maria Mantini).
E ancora, anni dopo, 1981: «Nel 1976 ho tentato un romanzo sul terrorismo... L'ho abbandonato. Il terrorismo è un fenomeno così aberrante e insieme così illuminante sui nostri giorni, che non mi si pone mai come forma letteraria. È capitato quell'unica volta, quando Anna Maria Mantini, sospettata di terrorismo, venne uccisa a Roma dalla polizia... Suo fratello Luca era già stato ucciso a Firenze. Con molta presunzione, mi sembrò un mio personaggio: non andai avanti a raccontarlo, ne sapevo troppo poco, sarebbe stato indebito. Ma non ci ho rinunziato».
E ancora, 1982: «E poi la sorte atroce di quell'agente che aveva sparato a cui spararono... Li avevo sentiti un poco miei personaggi... Ma mi sono reso conto che non ne sapevo abbastanza... E tuttavia sono storie italiane... Italianissime». Mancato il romanzo, la figura di Anna Maria anima le ultime sezioni della raccolta poetica di Pratolini intitolata Il mannello di Natascia (1985). Qui la nonna detta Natascia, gli parla di Anna Maria come «l'assassinata, che il mondo vorrebbe assassina. Non farmi temere che anche tu ci creda».
Ho appena letto il romanzo di Chiara Francini, Le querce non fanno limoni, Rizzoli. Ho incontrato una volta l'autrice. Ha scritto altri libri, non li ho letti. Capisco come questo sia capitato da me. La sua trama si svolge in un doppio contesto, quello degli anni del fascismo e della resistenza, e quello degli anni Settanta – del '73, precisamente – fra i due c'è un legame intimo, svelato compiutamente nelle ultime pagine.
E una doppia ambientazione, a Firenze e a Campi Bisenzio. Io sto di casa là in mezzo: tra la Misericordia di Campi, il Pronto Soccorso a Scandicci, il veterinario a Greve in Chianti. A Greve la protagonista del romanzo s'inizia alla lotta partigiana. A Greve lavorava Pratolini nell'84 al Mannello di Natascia.
I personaggi di Francini
Nel libro di Francini ci sono due fratelli, uno che sceglie la lotta armata clandestina, l'altro che vorrebbe emularlo, è forzato a fiancheggiarlo soltanto, finché non viene reclutato, e a quel punto non vorrebbe più, sente di tradire sé e la causa, e tuttavia si rassegna a una solidarietà tragica. Sono due fratelli maschi.
Una configurazione non rara: due fratelli sono i protagonisti del romanzo recente di Enrico Ruggeri, il quale sembra stare a destra perché tutti gli altri posti sono occupati, Un gioco da ragazzi, La nave di Teseo, (come un'eco della Malattia infantile di Pratolini), che finiscono su fronti opposti e irriducibili. Ma i fratelli di Francini, quelli del '73, sono comprimari.
Le protagoniste sono donne, una, Delia, sopra tutte. Negli anni dell'infanzia e dell'adolescenza, tutto – la governante dal cognome segreto, la famiglia, la biblioteca domestica, un temperamento audace – l'ha preparata a prendere il suo posto dalla parte giusta. Ma lo fa, mettendo in gioco la vita, quando il giovane uomo di cui si è innamorata, folgorata, al primo sguardo, la introduce nella guerra partigiana. Che sia la parte giusta lei non dubiterà mai e, catturata e scempiata nel corpo e nell'anima, non cederà, ma le resterà la certezza amara che l'amore, forte e leale, del suo uomo, viene dopo la causa cui si è votato.
Quando le cose si mostrano così nette, tutto il male di fronte tutto il bene nel cuore e oltre il fuoco comincia l'amore, può sembrar futile interrogarsi sulla propria libertà. Ma Delia, in quel '73, riconoscerà l'interrogazione in un'altra giovane donna, fiera, seria, che non sa la storia di ieri, e si dispone a seguire il giovane uomo, il leader del movimento, bello, eloquente, tormentato, del quale si è innamorata di colpo, folgorata: ma la causa adesso non è così luminosa e nemmeno appena chiara, somiglia a un'obbedienza, ed esige piuttosto che una fede nata in cuore un'abnegazione all'inganno dell'amore. Delia ora saprà che cosa fare. Lo farà per la sua madre perduta, e lo farà per tutte le figlie.
Gli uomini del romanzo non sono inesorabilmente fessi o meschini. Il padre di Delia cede al suo tremebondo antifascismo, e mortifica con naturalezza il talento della sua sposa che da allora dà le spalle al pianoforte e alla bellezza e alla vita. Ci sono gli eroi: uno è Bruno Fanciullacci.
Ci sono i popolani di Campi, i comunisti della Casa del Popolo, «compagni sì, ma soprattutto omini», la Cipollina con le poppe in fuori e il culo pizzo, gli anarchici, Gigione, l'esumatore di salme, che ne appende i rosari alla bicicletta Graziella, i’ Pugi, politologo di caratura pari a Bobbio ma con più bestemmie, il giovane mago Cristal, emulo di Houdini, che vent'anni dopo morì davvero sbranato dalla sua tigre.
Campi Bisenzio, di cui Francini si vanta provinciale, e con lei generazioni di cinesi, e Carlo Monni di bronzo seduto davanti al teatro che per chiamarsi anche da lui ha tutt'attaccato il nome precedente, Teatrodante Carlo Monni – e la Sandra Gesualdi, figlia del Michele di don Milani, e l’ex GKN, e la biblioteca Terzani e la cittadinanza più brava del mondo a rifarsi dalle alluvioni. Sono le pagine più vivaci e cantanti quelle di Campi.
Altrove certe conversazioni si fanno sentenziose come succede più nello scritto che nell'orale. Alcuni discorsi – soprattutto i politici, del leader studentesco, del brigatista – cuciono slogan.
Francini è nata qualche anno dopo l'ultima pagina del libro, dunque il suo è un romanzo che maneggia la storia, come quelli di Pratolini prima di sentirsene preso dentro. Ha avuto la sfrontatezza di scriverlo lei, per il tempo che a Pratolini non lasciò che dei versi – dei modi di andare a capo più spesso.
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