Usain Bolt, Nigel Mansell, Deborah Compagnoni: sono molti i casi che sollevano domande su questa fase finale di una competizione o di una stagione, in cui un atleta sente di essere vicino al traguardo e inconsapevolmente abbassa il livello di attenzione. L’incidente di Brignone ci invita a ripensare l'equilibrio tra impegno e recupero, nello sport e nella vita quotidiana, a saper dire di no, a non vedere le pause come momenti persi, a saper rallentare al momento giusto
Al termine di un lavoro lungo e faticoso, la maledetta voglia di mollare la presa può prendere il sopravvento. Sei in dirittura d’arrivo, sai che non devi calare la concentrazione ma non sempre stanchezza e consapevolezza sono alleate.
È questa l’interpretazione che aleggia relativamente all’incidente di Federica Brignone: cosa c’è dietro un infortunio che arriva al culmine di una stagione tanto straordinaria quanto impegnativa? Pura sfortuna? A soli dieci mesi dai Giochi Olimpici di Milano-Cortina, quando tutto suggeriva che sarebbe bastato mantenere il livello per coronare una carriera stellare, la campionessa si trova ora a ripartire da zero, ricostruendo prima di tutto il suo corpo.
Una porta inforcata col braccio fa da catapulta per un impatto devastante: frattura multipla del piatto tibiale e del perone, rottura del legamento crociato. È andato in frantumi proprio il punto anatomico in cui la velocità viene trasformata in cambi di direzione. Una ferita profonda, tanto fisica quanto psicologica.
Molti si sono chiesti: era davvero necessario gareggiare nei campionati nazionali in Val di Fassa? Lei non ha dubbi: «Sì, volevo esserci. Era il momento più felice» ha dichiarato. Ma ciò non elimina il fatto che uscisse da uno stress estremo. Quanto può influire la fatica, l’appagamento, il sottile inganno dell’inconscio che abbassa il livello di attenzione? Ci sono stati più casi che hanno sollevato la domanda su questa specie di sindrome dell’ultimo chilometro, la fase finale di una competizione o di una stagione, in cui l'atleta sente di essere ormai vicino al traguardo e, inconsapevolmente, abbassa il livello di attenzione. Succede tanto nello sport come nella vita quotidiana.
I precedenti
Usain Bolt, durante la sua ultima gara ufficiale, la staffetta 4x100 ai Mondiali di Londra 2017, ha subìto un infortunio muscolare. Dopo una carriera straordinaria e piena di successi, molti hanno interpretato l'incidente come un possibile calo di tensione emotiva e fisica, dato il contesto celebrativo della sua «ultima corsa».
Nigel Mansell nel 1992, dopo aver finalmente vinto il Campionato del Mondo di Formula 1, ha riportato un pesante infortunio durante una gara minore di kart, una competizione che affrontava senza la pressione delle sue usuali sfide. O per restare in casa ricordiamoci di Deborah Compagnoni. Durante la sua carriera straordinaria, ha subito diversi infortuni. Però uno degli episodi più noti è avvenuto ai Giochi Olimpici di Albertville nel 1992: dopo aver vinto l'oro nel superG si infortunò gravemente al ginocchio nella gara di slalom gigante, incidente attribuito alla pressione e alla stanchezza accumulata dopo il trionfo.
La controprova non ci sarà mai ma il dubbio ha dato origine a un filone di studio e allo sviluppo di più modelli teorici. Perché è una tendenza, un atteggiamento psicologico da riconoscere per evitarlo, importantissimo per gli atleti ma non solo. A tutti, nella quotidianità, capita di abbassare la guardia alla fine di un progetto, di un compito lavorativo o anche di una giornata impegnativa e comprometterne il buon esito. O di ridurre la concentrazione per la sensazione di appagamento in seguito all’aver superato gran parte delle difficoltà, anche se non ancora tutte. Oppure la percezione di avere quasi raggiunto l'obiettivo che genera un falso senso di sicurezza e spinge a trascurare le ultime fasi, spesso cruciali. Talvolta anche fatali come in molti incidenti dell’alpinismo.
Gli studi
La «sindrome dell’ultimo chilometro» è stata analizzata attraverso vari modelli teorici. Anche se non formalmente codificata, questa tendenza trova spiegazione in ambiti come psicologia, fisiologia e neuroscienze. C’è il modello del carico cumulativo che analizza l’accumulo progressivo di fatica fisica e mentale; c’è quello dell’affaticamento neuromuscolare che si concentra sulla relazione tra affaticamento fisico e risposta muscolare: quando il corpo è stanco, la coordinazione e la capacità di reagire in modo preciso diminuiscono. C’è quello della motivazione e goal gradient secondo cui la motivazione cresce man mano che ci si avvicina al traguardo ma in alcuni casi l’appagamento prematuro può portare a un rilassamento inconscio.
O ancora il modello del declino della vigilanza per cui la capacità di mantenere un'alta attenzione si riduce nel tempo in via indirettamente proporzionale alla durata e al logorìo dell’attività. Tra i vari modelli, quello della distrazione cognitiva sottolinea l’importanza della gestione delle pause rigenerative e del riconoscimento del «falso senso di sicurezza» che si può provare quando l’obbiettivo è vicino.
La consapevolezza di ciò che questi modelli rappresentano, aiuta non solo a evitare infortuni o errori ma anche a migliorare la gestione dell’impegno nelle sfide quotidiane. Va da sé che minori sono le fasi di recupero, più forte è la tensione verso la performance, maggiori saranno i rischi. Perciò il tema si correla strettamente a quello delle folli calendarizzazioni dello sport moderno, così come alla cronofagia che caratterizza la società occidentale della performance.
L'ipercalendarizzazione, ovvero l'aggiunta costante di competizioni e impegni nel calendario agonistico, è diventata un fenomeno preoccupante in moltissime discipline. Programmazioni serrate e la richiesta di performance costanti, mettono a dura prova corpo, mente e l’equilibrio degli atleti. Anche in questo caso gli esempi non mancano ma non servono: è piuttosto chiaro anche ai non addetti ai lavori: il calcio non si ferma mai tra campionati e coppe; l’atletica leggera outdoor e indoor non concede più tregue; il tennis lo si gioca su tutte le superfici, all’interno, all’esterno, in ogni angolo del mondo, tutto l’anno.
I calendari
Le implicazioni fisiche e psicologiche sono enormi. Da un lato, viene a mancare il tempo fisiologico necessario per recuperare, portando a un maggiore rischio di infortuni come dimostrano le fratture, lesioni muscolari e affaticamenti cronici che sono sempre più normalizzati. Dall’altro, la pressione mentale è amplificata: la necessità di dover essere sempre al massimo livello prestativo no stop, genera stress, esaurimento emotivo, cali di motivazione.
Senza considerare la difficoltà metodologica nell’inserire nei piani di lavoro i momenti di costruzione e crescita piuttosto che solo di sintesi e verifica. Il che significa che un atleta di alto livello deve fare qualità in quantità, non ha più quelle fasi di lavoro e costruzione della performance che poi affina alla ricerca del picco di forma: il picco deve durare tutto l’anno. E anche l'ipercalendarizzazione appunto, non è solo un tema sportivo ma riflette una dinamica sociale più ampia, in cui il ritmo incessante e la ricerca continua della performance, il non lasciare mai spazi vuoti per la rigenerazione, influenzano profondamente il benessere di individui e comunità.
Forse non c’entra nulla o forse si, in ogni caso l’incidente di Federica Brignone ci invita a ripensare l'equilibrio tra impegno e recupero, sia nello sport che nella vita quotidiana, a saper dire di no, a non vedere le pause come momenti persi, a saper rallentare al momento giusto per costruire le basi su cui accelerare verso nuovi traguardi. E chissà che questa pausa obbligata, che pare rubarle l’unico sogno che ancora non ha realizzato, non si trasformi invece in una sua alleata.
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