La sovraesposizione ha inclinato la tragedia di Garlasco verso la commedia all’italiana

Domenica scorsa Partitona Milan-Napoli, vince Allegri e perde Conte, cioè i due migliori mister italiani in attività, a parte Ancelotti (e Mancini?). È dunque Max il più bravo tra i due? Non dimentico un highlight dell’intervista che gli feci in cui c’è tutto Allegri. A domanda («Per indicazioni tattiche intende sovrapposizioni, diagonali, tagli?») rispose: «Non sono così tecnologico come lei. A me piacciono le cose concrete. Il calcio non lo inventa nessuno. Si gioca sempre su un campo di 65 metri per 105 come un secolo fa». I livornesi sanno prenderti per il culo così, con leggerezza. In concomitanza con la partita davano su un altro canale L’amore infedele di Adrian Lyne. Do un’occhiata alla trama: coppia benestante e innamorata di New York, lei, a un certo punto, perde la testa per «un aitante libraio» e succede il finimondo. Aitante, secondo il vocabolario, significa: «Di bell’aspetto (con un accento di robustezza e gagliardia); prestante». Per quanti ne ho conosciuti e senza offesa per la categoria, un aitante libraio a me sembra un ossimoro. Il Martello contro il Guascone: Conte-Allegri, sfida tra specialisti dello scudetto Lunedì Il mio personaggio della settimana è Ugo Betti che fu giocatore e dirigente del Parma calcio, nonché disegnatore della maglia della squadra (crocione nero su fondo bianco in stile Gerusalemme liberata). Colore locale a parte, Betti fu, in seguito alla disfatta di Caporetto, compagno di prigionia di Carlo Emilio Gadda, poi magistrato, e, infine, drammaturgo, dicono secondo solo a Pirandello (veramente ci sarebbe Eduardo, ma non è il momento di fare polemiche). Il suo capolavoro è Corruzione al Palazzo di giustizia, un fosco e solenne dramma che è un po’ un Processo di Kafka alla rovescia, cioè dal punto di vista dei giudici. Betti è il personaggio della settimana perché da qualche giorno alla complicata vicenda di Garlasco si è aggiunta una sconvolgente ipotesi che sembra il remake del suo dramma: una corruzione al Palazzo di giustizia di Pavia con compravendita di indagini, interrogatori e archiviazioni. Se fossi la Rai ritrasmetterei la messinscena del capolavoro di Betti che andò in onda nel 1966 con interpreti grandi del teatro italiano come Glauco Mauri, Tino Buazzelli, Nando Gazzolo e Giulia Lazzarini. Nemmeno la tragedia di Vermicino ebbe una copertura mediatica pari a quella del caso Garlasco, una diretta televisiva ininterrotta e a reti unificate, trasmissioni che si danno il cambio per tutto il giorno e buona parte della notte. Sono diventati ospiti fissi delle case italiane: l’avvocato Lovati e le sue sibilline metafore oniriche; la famiglia Sempio, accumulatori seriali di scontrini e pizzini; l’azzimatissimo generale in congedo Garofano; l’avvocato De Rensis, il mio prediletto (infatti non piace ad Aldo Grasso) e il più bravo. A causa di questa sovraesposizione televisiva la tragedia di Garlasco ha finito per inclinare pericolosamente verso la commedia all’italiana. Colpa della variopinta compagnia di giro dei talk show formata da psicologi (soprattutto psicologhe), criminologi, tuttologi, cronisti(o tronisti?), ex piemme. La riesumazione del capolavoro di Betti potrebbe riscattare con la sua solennità una storia sanguinosa che rischia di scadere nella famigerata «corte di nani e ballerine» evocata negli anni Ottanta dal socialista Rino Formica a proposito del suo stesso partito (espressione poi riutilizzata da Luca Barbareschi per descrivere proprio la fauna Rai al tempo in cui la destra se ne impadronì). «Qualcuno doveva aver denunciato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua padrona di casa, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Ciò non era mai accaduto». È l’incipit immortale del Processo di Kafka, ma sembra sempre di più il probabile incipit della storia di Alberto Stasi. Kafka, come gli zombie, a volte torna? Garlasco, un omicidio diventato feuilleton. Ma la magistratura è già colpevole Martedì Ho finito di leggere Il sol dell’avvenire di Pierre Lemaitre (Mondadori), nuova puntata della saga sulla famiglia Pelletier e in generale sul secolo (il ventesimo) francese. Lemaitre è uno scrittore che amo. Molti anni fa, la prima volta che scrissi di lui, scoppiò il panico in redazione al momento di impaginare: in Italia non si trovava nemmeno una sua foto. A fare grande un romanzo sono i suoi personaggi e la famiglia Pelletier è piena di personaggi strepitosi. In questa puntata centrata sugli anni Cinquanta, i Pelletier sono travolti dalla Guerra Fredda e dal terrore di una nuova bomba atomica (la storia si ripete e, forse, non in farsa). Come sempre Lemaitre incrocia i destini della famiglia in un puzzle vertiginoso, beffardo e commovente, alla maniera di Honoré de Balzac, il padre della patria narrativa francese. Stavolta tra le frecce al suo arco aggiunge quella di un altro maestro, John le Carré, con un particolare omaggio a George Smiley, la spia che abbiamo più amato. La parte del romanzo ambientata a Praga con il personaggio indimenticabile di Klára, «la puttana del sistema», è le Carré puro. Di lei Lemaitre dice: «Le storie delle donne iniziano spesso con i padri. Il suo era un professore di francese». Mentre leggevo Il sol dell’avvenire ho pensato spesso ad altri libri. Quelli di Kundera, quelli di Kafka, L’orgia di Praga di Philip Roth e, fatalmente, Praga magica di Angelo Maria Ripellino. Lemaitre sta in ottima compagnia. Mercoledì A Parigi ai funerali di Claudia “Angelica” Cardinale hanno suonato il Valzer brillante di Verdi, lo spartito che era stato perduto e fu fortunosamente recuperato (quando si dice il destino) da Nino Rota e Luchino Visconti giusto in tempo per Il Gattopardo. Sbrigo posta arretratissima (e me ne scuso). Francesca Ceriani mi aveva scritto: «Caro “fratello in Conte” D’Orrico, non so se quando scrivo (sera di sabato 21 giugno) ha già letto l’articolo di Corrado Antonini sulla milonga. A che punto siamo con la candidatura al Nobel?». Visto come siamo messi ormai, il Nobel per la letteratura a Paolo Conte onorerebbe la letteratura più che Paolo Conte. Le sono molto grato, cara Francesca, per la segnalazione del bellissimo articolo di Corrado Antonini sul sito Doppiozero. Rievoca l’agosto 1980 in cui il Premio Tenco andò al cantautore e poeta argentino Atahualpa Yupanqui e Paolo Conte era presente. Lascio la parola ad Antonini: «Quando Atahualpa Yupanqui (all’anagrafe Héctor Robert Chavero Aramburu), o più semplicemente Don Ata, salì sul palco dell’Ariston, attaccò una milonga. Avrebbe potuto essere una zamba o una chacarera, non certo un tango, che apparteneva ai vicoli di Buenos Aires e rimandava a una sregolatezza che gli era estranea…». (San) Paolo Conte ne fu folgorato. Scrive Antonini che in quel magico incontro l’indio «dall’aria imperturbabile e meticcia» e il maestro di Asti proiettarono «il pudore dell’uno in quello dell’altro». L’articolo chiude tra gli applausi (miei): «Nel repertorio del canzoniere italiano non c’è probabilmente una canzone che esprima in modo tanto circospetto e partecipe le lusinghe che anticipano l’amplesso». Claudia Cardinale è stata quello che il cinema italiano poteva essere Giovedì Avevo voglia, dopo il bel saggio di Antonini, di risentire Alle prese con una verde milonga, ma ho sbagliato e ho cliccato su un altro capolavoro del maestro. Parigi: «Lo so, lo so che questo non è cipria, è sorriso. / E sì, che non è luce, è solo un attimo di gloria / e riguarda me, che sono qui davanti a te sotto la pioggia / mentre tutto intorno è solamente pioggia e Francia». Dararà, dari-rararà «Io e te, chissà qualcuno ci avrà pure presentati / E abbiamo usato un taxi, più un telefono, più una piazza». Ogni canzone di Conte è un film, si dice sempre, ed è una grande verità. Ho pensato che l’interprete perfetta del film Parigi, mentre tutto intorno è pioggia e Francia, può essere soltanto lei, Claudia Cardinale. Venerdì Il mio giovedì contiano (poi ho ascoltato tutto il giorno le sue canzoni) mi ha fatto tornare in mente la classifica dei cantautori italiani, stilata da Luigi Manconi e segnalatami con orrore da Italo Beccaria, dove Conte compare al settimo posto! Riguardando la classifica, ho scoperto un’altra cosa raccapricciante. Se riuscirò a riprendermi, ve ne parlerò la prossima volta.