Prima che il cibo in sé diventasse una pratica culturale istituzionalizzata c’era la trattoria. In tutto il periodo della ricostruzione ma ancora lungo gli anni ‘50 italiani, la trattoria è stata un luogo centrale non solo della vita sociale ma soprattutto della vita culturale italiana. Nonostante fossero anni di difficoltà economiche (o forse proprio per quello) il pasto fuori casa non era considerato da molti un lusso ma un’occasione di lavoro, di incontro e aggregazione.

Sempre in anni di grandissimo fermento di idee, la trattoria era il luogo in cui queste si scontravano tra di loro, venivano messe alla prova, diventavano manifesti. E negli anni ‘50 non c’erano trattorie più trattorie di quelle di Roma, che in breve era diventato il centro culturale della nazione, di certo per quanto riguarda il cinema, che si faceva solo lì.

I più grandi registi e sceneggiatori dell’epoca, o gli aspiranti tali, venivano a Roma per trovare quel poco lavoro malpagato che c’era. Tutti si conoscevano e si incontravano nelle trattorie. E ogni gruppo di amici o categoria professionale aveva la propria.

Gli incontri

«A Roma hanno fatto più i caffè e le trattorie che non i giornali e i circoli culturali» diceva una decina di anni fa a La Repubblica Ugo Pirro, epico sceneggiatore del cinema italiano responsabile tra gli altri di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso, che alla storia delle trattorie di Roma e del loro ruolo in quegli anni ha dedicato il libro Osteria dei pittori.

Nelle trattorie e nelle osterie si ritrovavano Ettore Scola, Suso Cecchi d’Amico e Federico Fellini, si facevano le riunioni di sceneggiatura dei nostri film più noti e delle commedie più divertenti, a volte scritte anche da 5-6 sceneggiatori diversi. Nelle osterie litigavano furiosamente (e ci si picchiava!) alcuni dei nomi più grandi della cultura dell’epoca.

Racconta sempre Pirro che Pasolini, prima di diventare regista dei suoi film, durante la collaborazione ad un film di Carlo Lizzani nelle riunioni di sceneggiatura in trattoria diceva cose come: «No questo non va bene, ora ci devo pensare io…» e via di scontri.

Invece Rodolfo Sonego, altro pezzo da 90 della scrittura del cinema italiano (Il sorpasso, Una vita difficile) che fu proprio scoperto in un’osteria, la Trattoria dei pittori all’angelo di Venezia, per via degli eccezionali racconti di guerra con i quali intratteneva i commensali, e al quale fu proposto di venire a scrivere film a Roma, nel libro intervista Il cervello di Alberto Sordi, racconta di come in queste riunioni non tutti fossero proprio attenti e il peggiore fosse Gillo Pontecorvo (che poi scriverà e girerà La battaglia di Algeri), il quale spesso si appartava nelle cucine per provarci con le cameriere salvo venire ogni volta richiamato all’ordine.

Ogni trattoria aveva la sua frequentazione e le divisioni erano per professione, credo politico ma anche per generazione. Ettore Scola e i suoi coevi preferivano Otello alla Concordia o Il re della mezza porzione in via dei Fienili (immortalato da lui stesso, proprio come luogo di aggregazione, amicizia e riconciliazione in C’eravamo tanto amati), invece quelli un po’ più grandi di lui come Monicelli, Risi, Antonioni, Lattuada e per l’appunto Pirro preferivano la già citata Osteria dei pittori, in cui erano tuttavia degli intrusi. Come dice il nome quello era il luogo di ritrovo dei pittori della scuola romana dell’epoca (Mario Mafai in testa ma anche Consagra, Omiccioli, Turcato, Dorazio, Consagra, Scarpitta, Sanfilippo, Accardi…).

Era un luogo di discussione e polemiche: figurativi contro astrattisti ma soprattutto comunisti che si scontravano con altri comunisti, tutti accomunati dal non avere una lira. A quel locale ci arrivarono dopo essere stati sbattuti fuori da Il re degli amici, altra trattoria ma questa volta in via della Croce, frequentata da Guttuso e Carlo Levi ma anche da personalità internazionali negli anni in cui Roma iniziava ad attirarne, da Tyrone Power ad Orson Welles fino al più nostrano Palmiro Togliatti.

I fratelli Menghi

L’osteria dei pittori invece era gestita dai fratelli Menghi, appassionati d’arte che avevano fatto un punto d’onore di sostenere gli artisti facendo loro credito. Si mangiava e si segnava sul conto, caratteristica tipica dell’epoca che tuttavia lì dai Menghi era un’istituzione. All’Osteria dei pittori finivano occasionalmente personalità come Moravia e Cardarelli, ma anche giornalisti e attori senza tuttavia mischiarsi molto, ogni categoria con il proprio tavolo.

I Menghi, sempre per citare Pirro, con il loro far credito «salvavano gli artisti da una triplice censura: del mercato, del governo e del realismo socialista» e negli anni hanno accumulato una fortuna in disegni su tovaglioli di carta e dipinti sui loro muri come forma di sdebitamento. Oggi al civico 57 di via Flaminia, dietro Piazza del popolo, al posto dell’osteria c’è un ben più squallido Caffè dei pittori, praticamente un bar con piastrelle e tavoli di plastica.

Prima che arrivassero i tavolini di via Veneto degli anni ‘60, la Hollywood sul Tevere (cioè il travaso di attori e registi americani in Italia) e la cultura del glamour legata al consumo di vivande, osterie e trattorie erano luoghi ben poco glamour e abbastanza poveri in cui tutta una classe culturale, anch’essa abbastanza povera, mangiava carbonara e trippa assieme ai propri simili. Anche le rosticcerie (famosa una in via Barberini) potevano diventare dei rifugi in cui trovare Giulio Turcato, o almeno le rare volte che vendeva un quadro e aveva soldi per un po’ di pollo arrosto.

In strada

Con una scarsa competenza culinaria e senza pasti pronti in vendita in quell’epoca specialmente se si era uomini e scapoli non c’era maniera di mangiare se non in strada. Ma più in generale con case molto meno attrezzate di oggi si viveva molto in strada o in giro, si conoscevano persone, si trovava lavoro, si partorivano idee e facevano proclami.

Racconta sempre Sonego che la prima volta che Vittorio De Sica (negli anni Quaranta già un’istituzione del cinema italiano alto e basso) incontrò Alberto Sordi, prima ancora che questo facesse il suo primo film, fu in una trattoria nella quale un borioso generale pontificava sullo stato del paese e Sordi, da qualche tavolo vicino, dal basso del suo non essere nessuno si alzò e con un vocione lo apostrofò «...signor generale! E che dire dei nostri fieri alpini!?!» e via a cantare l’inno degli alpini con la medesima molesta convinzione dei personaggi che poi avrebbe portato nei film.

Uno spiraglio di questa vita ovviamente lo si intravede nei film dell’epoca, nei quali ogni qualvolta i personaggi si ritrovano in una trattoria la storia prende una svolta, c’è uno snodo romantico, uno di tensione o uno drammaturgico.

Oltre alla già citata osteria di C’eravamo tanto amati in cui ammirare il tempo che passa e i legami che rimangono, è in una trattoria che in Una vita difficile Alberto Sordi capisce dal figlio che la madre, da lui separata, ha tradito i loro ideali e ora si accompagna ad un uomo ricco, è in una trattoria che Bruno e Roberto in Il sorpasso iniziano a conoscersi, e ancora è in una trattoria che il padre e il figlio di Ladri di biciclette hanno l’unico momento di leggerezza e spensierata serenità insieme.

E ancora in un film, ma moderno, cioè Notti magiche di Paolo Virzì, vediamo come negli anni ‘90 la generazione degli anni ‘50 si ritrovasse ogni mercoledì da Otello alla concordia. A quel punto avevano nel complesso più di una 30ina di capolavori acclarati sulle spalle e quasi 40 anni di frequentazione delle osterie.

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