La pandemia ha cambiato la traiettoria del nostro sguardo su noi stessi e sul mondo: se prima partiva dal sé, dal nostro corpo, per approdare subito agli altri, ora parte da un mondo contagioso e minaccioso per poi incagliarsi apprensivo su noi stessi: si sofferma a lungo sulla nostra fragilità, su quel nostro corpo che ci appariva solido e invincibile e che ora è diventato terreno di paura e di allarmata autoanalisi.

Eppure che si muoia e che ci si ammali non è certo una novità. È vero, l’inconscio non accetta la nostra inevitabile fine organica, ed è vero che va di moda leggere libri confortanti che ce la fanno dimenticare, come se i romanzi dovessero essere tazze di camomilla poggiate sul comodino. Ma in realtà la letteratura ci ha spiegato in tutti i modi cosa significa essere malati. Della malattia è stato scritto moltissimo. Prima del celebre e intelligentissimo Malattia come metafora della Sontag esistevano le Devozioni per occasioni di emergenza di John Donne, che con il virtuosismo di chi fa del capezzale una navicella spaziale dell’immaginazione raccontava il corpo e la paura della fine. C’era Harriet Martineu con il suo Life in the sick room. C’erano, più indietro di tutti loro, i Discorsi sacri di Elio Aristide, che in un tempio dell’antica Roma si curava sognando, trascrivendo gli avvenimenti onirici considerandoli prescrizioni preziose del dio Asclepio. Persino la madre di Virginia Woolf, Julia Stephen, scrisse un trattato tenero e meticoloso sui malati, sulle loro camere e le loro idiosincrasie, sulla loro sfrenata fantasia, quel proliferare dell’immaginazione che si scatena in posizione sdraiata, quella non-morte vigile e fantasiosa che è un po’ quello di cui parlava con verve apocalittica Sylvia Plath quando scrisse «sono verticale ma vorrei essere orizzontale».

Il corpo diventa oggetto

Ora, in questo 2020 pandemico che ci invita a comprendere una volta per tutte la malattia, in questo ottobre che è anche il mese del tumore al seno, esce in Italia per La nave di Teseo Non morire di Anne Boyer, premio Pulitzer di quest’anno e libro bellissimo che sono stata felice di tradurre. Definito il nuovo Malattia come metafora, Non morire è un testo ibrido e travolgente, politico e poetico, femminista e sovversivo. Parla del corpo che si ammala: non più soggetto, diventa oggetto strumentalizzato dal capitalismo oncologico e dalla banalità dei media, privato degli assetti di base della propria identità (se sei malato non sei più persona, ma paziente), scansionato e numerato e spezzettato ma anche mitologizzato: perché la donna con un cancro è costretta dalle narrazioni neoliberiste che impazzano dagli anni novanta a ricalcare la convenzione di un cancro-nemico da dover combattere con un sorriso costante e banali massime sul valore della vita.

Questo appiattimento della personalità del malato, costretto a mostrarsi come vergineo angelo sacrificale che dispensa frasette ottimiste, accade per soddisfare un bisogno collettivo: quello di apprendere, da chi si reputa prossimo alla morte e dunque al divino, il vero significato delle nostre vite che annaspano sotto tonnellate di falsi valori. Così, dai teen movies americani sulle ragazze malate terminali ai memoir sul cancro, i malati (specie se di sesso femminile) non sono altro che incubatori impersonali di malattia a cui mancano tratti specifici e un rapporto produttivo con la vita.

E non è tutto. Il problema principale di ammalarsi in questo mondo è che, come scrive Boyer, la storia di avere un corpo potrebbe benissimo essere la storia di ciò che è stato fatto alla maggior parte di noi nell’interesse di pochi. Il problema è che la macchina capitalistica dell’oncologia gestisce la patologia secondo logiche ben lontane dagli interessi del paziente. È qui che si diventa numeri, oggetti inanimati. È qui che, in Non morire, entra in gioco la letteratura a restituire l’aggancio dell’anima a un corpo reificato, svilito dagli ingranaggi disumani del profitto. Così, da Mri, CT Pet e altri nomi siglati che si appropriano dei corpi, emergono come fenici Alice James e Jacqueline Susann, Audre Lorde e Walt Whitman. Recitano i loro versi apprensivi su corpi e mali e mastectomie o sprofondano in quell’angolazione dei pensieri propria di chi passa molto tempo a letto.

Perché «la persona sofferente, per fuggire lo sconforto, può balzare fuori dal guscio di dolore del suo corpo decadente e pensarsi in uno spazio oltre lo spazio». E quello spazio, ci ricorda Boyer, è quello in cui dovrebbero avvenire tutte le rivoluzioni. È lo spazio dove la fantasia può creare senza il disturbo prosaico dell’essere umani per la società: sul letto si può esserlo solo per se stessi. Così, agli amici che a disagio le chiedono di non parlare di morte, Boyer chiede che non le si tolga quel grande privilegio. Nel capezzale, i malati disassemblano il proprio corpo e la propria vita e ne fanno una nuova cosmologia. Nel capezzale non c’è più differenza tra il dolore individuale e quello collettivo, tra le bellezza di essere nel mondo e quella di pensarsi per un po’ fuori da esso.

Lingua e malattia

E in tutto ciò, in fondo, cos’è questo cancro che ci dicono di combattere ma che si annoda ai corpi? Non esiste realmente, dice Boyer: è «un’idea che modelliamo per diffamare la nostra intima malignità». Naturalmente questa è solo una provocazione. Perché in Non morire c’è un po’ di tutto: le provocazioni, la poesia, l’autoironia, la guarigione, il dramma personale e quello della specie, le politiche di classe e le mistificazioni dei guru. C’è l’ironia sfrenata, anche. E a ogni livello di indagine corrisponde una lingua diversa: chirurgica e brutale quando si immerge nella scienza, lirica e volatile quando rievoca i pensieri del capezzale, struggente e calorosa quando elenca gli affetti, asfittica e apocalittica quando elenca gli effetti (collaterali). Il gelo e il tepore, la tecnologia e il sospetto, l’intimità e la Storia, la cura e l’incuria, la poesia e l’oppressione, si incastrano tra loro in questo libro così ricco, ognuna con le sue parole e i suoi conflitti, i suoi silenzi e i suoi ostacoli, e tradurre questi slittamenti, questi smottamenti di stile e di sentimento, è stata per me una ginnastica appassionante: un memento che dietro il linguaggio rigido che ci fornisce la società con le sue politiche (di classe, di profitto, di genere, di pensiero) esistono i linguaggi mobili, cangianti e febbrili della vita interiore, che mai si adatteranno a ciò che il mondo vuole fare di noi.

Tutti questi linguaggi, in Non morire, si intrecciano come nella vita, finché è la parola stessa – così stratificata, audace, così vitale -- che restituisce a Boyer, e a chi legge, la guarigione, sia in senso stretto (il suo tumore è guarito) che in senso lato: solo il racconto, sui nostri corpi e sui nostri animi, sul nostro mondo contaminato e contaminante, solo le storie che ci narriamo persino e soprattutto nella stasi orizzontale dei letti, possono salvarci dalla confusione tetra e feroce di vivere su questo pianeta.

Perché non saranno certo le storie confortanti, che tacciono le contraddizioni, a tenerci al sicuro: saranno le storie che accolgono tutto, comprendono tutto, e solo così lo portano in salvo. E perché in fondo, come scrive Boyer, la storia della malattia non è la storia della medicina, è la storia del mondo.

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