È un sogno ricorrente degli uomini (in verità, così almeno a me sembra, si tratta di un loro costante delirio): organizzare la società in modo tale da garantire il bene evitando il dramma della libertà e la precarietà delle scelte individuali. Di fronte alle incertezze che ogni essere umano inevitabilmente introduce nella scena del mondo, si immagina/delira una società che possa assicurare l’ordine e la pace senza attendere il contributo che a tal fine ogni individuo è chiamato a dare.

Si tratta, in altre parole, del sogno/delirio di un mondo fondato su un’idea di bene talmente oggettivo, e dunque sicuro, da poter evitare ogni contatto, e di conseguenza ogni contaminazione, con l’identità soggettiva: «bene oggettivo» che sarebbe tale proprio perché capace di evitare il dramma e le inevitabili incertezze ed esitazioni che sempre accompagnano l’agire di un essere libero e responsabile.

Dostoevskij fa di questo sogno/delirio uno dei punti di forza del realismo che porta il Grande Inquisitore (ne I fratelli Karamazov) a prendere le distanze da Gesù il quale, giudicando «troppo altamente» gli uomini, avrebbe sottovalutato il «fondamentale segreto della natura umana»; infatti «nulla mai è stato per l’uomo e per la società umana più intollerabile della libertà (...) non c’è per l’uomo pensiero più angoscioso che quello di trovare al più presto a chi rimettere il dono della libertà con cui nasce questa infelice creatura».

I successi della scienza

Il Grande Inquisitore, che accusa Gesù di rivolgersi solo ai liberi e ai forti che aspirano al «pane celeste» mentre a lui sono care soprattutto le masse che formano la «debole razza umana» interessata principalmente al «pane terreno», dunque non ha dubbi: se si vuole il bene (e c’è forse qualcuno che non desidera il bene?) è necessario imporlo perché non si può certo attendere ch’esso venga scelto da esseri che in gran parte sono «deboli, viziosi, inetti e ribelli». Si tratta della certezza che è a fondamento di ogni totalitarismo, anche di quello non armato e apparentemente non violento: volere talmente il bene da decidere di imporlo, essere così appassionati al bene per tutti da sentirsi in dovere di trascurare la libertà/responsabilità di ciascuno.

Oggi questa tentazione – mi permetto di ripeterlo: sempre presente e di continuo ricorrente all’interno della storia umana – è alimentata dai successi della scienza il cui progresso è talmente vertiginoso da far apparire ogni ri-flessione sulla libertà e sulla responsabilità personale come una inutile perdita di tempo. Così si ragiona: certo, la libertà e la responsabilità personali sono importanti, ma i tempi impongono decisioni che non possono concedersi il lusso del dubbio. In altre parole: viviamo nell’urgenza, non si può fare altrimenti, non c’è alternativa, è necessario comportarsi in questo modo e non in quell’altro. Milton, in Paradise Lost (IV, 393-394), parla del «senso di necessità / che è sempre l’argomento del tiranno (tyrant's plea) » (Plea significa scusa, giustificazione, difesa, argomento di difesa).

In particolare oggi la scienza alimenta questa tentazione, spesso senza volerlo ma anche senza volerlo sapere (non ha tempo per questo ordine di questioni), attraverso la categoria della «sicurezza». La scienza è l’unica ad essere in grado di garantire un alto tasso di sicurezza, una sicurezza che in un periodo di epidemia come il nostro rischia di trasformarsi – ancora una volta: senza alcuna responsabilità da parte della scienza ma anche senza che la scienza dimostri un qualche interesse al riguardo – in un una metafisica. Il carattere «metafisico» della sicurezza emerge con evidenza quando si arriva a sognare/delirare di «mettere in sicurezza», ad esempio, non solo la house ma anche la home, non solo l’edificio (la materia) ma anche i legami (lo spirito) che si sviluppano al suo interno: dunque, mettere in sicurezza non un qualche aspetto dell’essere umano ma il suo tutto, arrivando magari, se gli algoritmi riusciranno a mantenere tutte le promesse che ci entusiasmano, a controllare (cioè: «sorvegliare e punire», Foucault) l’intera avventura umana.

Il fallimento del Dr. Jekyll

Certo, non si può vivere nell’insicurezza, ma altrettanto certamente non si può pensare di mettere in sicurezza tutto l’umano, non si può vivere da uomini al di fuori del dramma della libertà e dell’urgenza della responsabilità, è impossibile diventare umani senza convivere come una certa irriducibile ed essenziale, e proprio per questo anche preziosa, insicurezza. L’uomo, dunque, non può vivere nell'insicurezza ma c’è una sicurezza che impedisce all’uomo di vivere da uomo. A me sembra sia questo il principale messaggio che ci viene da Strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde. Spesso si afferma che al centro del romanzo di Stevenson vi è la denuncia della doppia natura presente in ogni uomo che si trova così ad essere quotidianamente in lotta tra il bene e il male.

Ma al di là di questa lotta, forse più al fondo di essa, bisogna saper riconoscere la denuncia della pretesa che agita il Dr. Jekyl, lo scienziato Jekyall, il quale, dopo aver preso coscienza «che l’uomo non è uno, bensì due», afferma: «Io imparai ad abbandonarmi con piacere, come in un sogno dolcissimo, al pensiero della separazione di questi due elementi. Così mi dissi, se ognuno dei due elementi potesse essere ospitato in identità diverse e disgiunte, alla vita verrebbero meno i suoi pesi maggiori: l’ingiusto se ne andrebbe per la sua strada, mentre il giusto potrebbe procedere diritto e senza pericolo lungo il suo retto cammino».

Si sa come finisce: la pretesa di controllo del dottor/scienziato Jekyll non solo fallisce ma soprattutto si rovescia: Mr. Hyde prende il sopravvento entrando in scena all’improvviso, senza neppure più l’aiuto della sostanza. Colui che grazie alla sostanza, e non attraverso una libera, faticosa e mai definitiva scelta, voleva controllare/dominare il rapporto tra il bene e il male, alla fine si trova controllato/soggiogato dal male stesso: «Fallimento totale!!!» egli scrive nel quaderno che leggerà il collega Lanyon. Il bene non deve essere imposto perché esso può essere solo scelto; analogamente l’abitare dell’uomo non può mai essere «messo in sicurezza» una volta per tutte.

La scena umana è quella di un dramma irriducibile e misterioso all’interno del quale vi è il grano e la zizzania, il grano intrecciato con la zizzania; dove nessuno, neppure la scienza, deve credere e deve far credere di poter separare una volta per tutte il primo dalla seconda; dove l’edificazione del bene resta legata al filo fragile e al tempo stesso tenacissimo della libertà e della responsabilità personali.

La parabola di Burgess

Bisogna accettare la sfida del «due» e abbandonare l’illusione di poterlo ridurre all’«uno». Anthony Burgess, commentando il suo romanzo A Clockwork Orange (Arancia meccanica), scrive: «Imponete a un individuo la possibilità di essere solo e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del bene presunto della stabilità sociale. La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente – scelta come atto volontario – a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo».

© riproduzione riservata

© Riproduzione riservata