Le Cop sul clima ormai non sono più soltanto lo spazio dove la scienza e la politica negoziano i termini dell’apocalisse. Negli ultimi anni è cresciuto un terzo ramo, che a Glasgow è stato molto visibile: quello ottimista e sempre sul filo del greenwashing delle aziende impegnate a dimostrare che fanno sul serio nella corsa verso zero emissioni.

Alla Cop26, chiusa il 13 novembre, il settore moda e abbigliamento è stato uno dei più attivi dentro questa fiera della decarbonizzazione, sia perché è un mercato rivolto ai consumatori – e quindi ha problemi di manutenzione della reputazione che acciaio e cemento non hanno –, sia per i numeri catastrofici del suo impatto.

Emissioni e composti chimici

L’8 per cento delle emissioni di gas serra vengono dalla produzione di vestiti e scarpe. Il settore ha un miliardo di tonnellate di emissioni annue in più di quelle che dovrebbe avere per essere in linea con l’accordo di Parigi.

Tra il 20 e il 25 per cento dei composti chimici usati globalmente finiscono in un tessuto, oltre all’1,35 per cento della produzione di petrolio. E tre quinti di quei tessuti finisce in una discarica entro il primo anno di uscita dalla fabbrica.

Sono dati che dicono due cose: la moda produce male e produce troppo.

È di questo che si è parlato nella blue zone di Glasgow, che è il cuore dell’evento e questo è un aspetto importante. Gli stessi corridoi e le stesse stanze frequentate da Joe Biden, Mario Draghi e Ursula von der Leyen hanno visto passare anche stilisti e ceo dei grandi brand.

Ne sono passati di anni da quando la moda non dava nemmeno diritto al badge per entrare nelle conferenze sul clima e doveva organizzare convegni a margine, perché considerata non abbastanza seria per prendere parte alla discussione principale, come successo a Cop15 di Copenaghen (lo ricordava Vanessa Friedman sul New York Times).

Il loro impegno politico e mediatico è stato massimo, c’era anche un’installazione chiamata generation of waste, che mostrava tutte le fasi di vita di un prodotto tessile.

Eredità futura

dpatop - 25 November 2021, Chile, Alto Hospicio: Used clothes sit in a landfill in the desert. In the nearby free trade zone of Iquique, 29,178 tons of used clothing arrived in 2021 through October. About 50 importers sell the best pieces from them, while the others - an estimated 40 percent - sort them out. (to dpa "Chile's Atacama Desert: Graveyard for Used Clothes") Photo by: Antonio Cossio/picture-alliance/dpa/AP Images

Se c’è un settore a proprio agio con la comunicazione, quello è la moda, e quindi a Glasgow si è scritto e parlato tanto di sostenibilità. I risultati raggiunti dall’industria del fashion alla Cop26 riflettono però l’andamento di tutto il vertice: ambizione insufficiente e – lì dove gli obiettivi sono corretti e allineati alle richieste della scienza – mancanza di vincoli concreti per dare ai consumatori una ragionevole certezza che dalle parole si passerà ai fatti in tempi utili per evitare il collasso ecologico.

Il risultato più importante dobbiamo cercarlo nell’eredità futura dell’evento più che nei suoi risvolti pratici immediati. L’industria della moda esce infatti cambiata da Glasgow, ha dimostrato a sé stessa e all’esterno di vedere il problema nella sua gravità e importanza, su una scala che anche solo prima della pandemia sarebbe stata impensabile.

È un passaggio dal quale sarà difficile tornare indietro. Il mondo degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste avrebbe preferito risultati definitivi, ma si deve accontentare di un buon inizio.

Sono 130 le grandi case di moda che a Cop26 si sono impegnate a raggiungere la neutralità nel 2050 e a dimezzare le emissioni complessive al 2030, con l’aggiunta di una promessa (piuttosto vaga) di usare solo materiali sostenibili.

Non è una novità di Glasgow, si tratta un programma dell’agenzia ambiente dell’Onu partito già due Cop fa, a Katowice, in Polonia nel 2018, però sono cresciuti sia il numero dei gruppi coinvolti che la portata dell’impegno.

Per esempio c’è per la prima volta anche un colosso come Lvmh, ma soprattutto i firmatari hanno concordato anche sull’eliminazione del carbone da tutta la catena del valore entro il 2030.

Si tratterebbe di un cambiamento sostanziale, visto quante aziende oggi producono in paesi come Cina, India, Vietnam, i principali consumatori di carbone al mondo. Ma si tratta di un impegno senza alcun meccanismo di sanzione, vigilato solo da consumatori e investitori. Una promessa solenne e poco più.

Secondo la nuova evoluzione del patto dei produttori tessili siglato a Glasgow, i firmatari hanno anche dodici mesi per sottoporre un piano su come intendono raggiungere gli obiettivi, ma questo trasformerà semplicemente la promessa in una promessa dettagliata.

Tecnologia digitale

Poi c’è la tecnologia digitale, sulla quale ogni industria ad alte emissioni punta come a una cavalleria che a un certo punto arriverà da fuori inquadratura a salvare tutti.

Il risultato di più alto profilo in questo ambito non era un’anteprima di Glasgow ma era stato presentato già a Roma, nella residenza dell’ambasciatore britannico, a margine del G20 presieduto dall’Italia. È una creatura del principe Carlo e della sua Fashion Taskforce, guidata dall’italiano Federico Marchetti (ex Yoox).

Si tratta di Digital ID, un certificato digitale per ricostruire la storia del tessuti e rispondere a un effettivo bisogno di questo mercato fatto di catene di produzione lunghe e opache: la trasparenza. Tra i membri dell’alleanza del tagliandino digitale ci sono Burberry, Chloé, Stella McCartney, Giorgio Armani, Brunello Cucinelli, Vestiaire, Zalando.

L’implementazione sul mercato dovrebbe arrivare a breve. Non è un proiettile d’argento, ma è uno strumento concreto, soprattutto in uno scenario in cui tocca ai consumatori il compito di vigilare.

Politiche di settore

Britain's Prince Charles, center, speaks with designer Stella McCartney, right, and Leonardo DiCaprio, left, as he views a fashion installation by the designer, at the Kelvingrove Art Gallery and Museum, during the Cop26 summit being held at the Scottish Event Campus (SEC) in Glasgow, Scotland, Wednesday, Nov. 3, 2021. (Owen Humphreys/Pool via AP)

Poi c’è stato il livello politico del negoziato, sintetizzato bene dalle parole di Stella McCartney ai governi presenti a Cop26: «Sono qui oggi perché imploro nuove politiche di settore. I paesi devono sostenere attivamente il cambiamento e la transizione della moda».

La richiesta è quella di un sistema di incentivi e regole, soprattutto sul fronte dei materiali. A portarla avanti ufficialmente è una ong chiamata Textile exchange in rappresentanza di una cinquantina di aziende con comportamenti ambientali molto diversi tra loro, da H&M a Patagonia.

Secondo loro non bastano gli impegni di sostenibilità delle singole imprese se il campo di gioco non permette una competizione alla pari. Tutto questo mentre il campo stesso si espande in modo incontrollabile. Nel 2000 si producevano 50 milioni di tonnellate di fibre all’anno, nel 2020 sono arrivate a 109 milioni di tonnellate, nel 2030 saremo a 146 milioni di tonnellate all’anno.

Serve un indirizzo nel commercio globale, a sostegno di materiali sostenibili come le fibre riciclate o il cotone biologico. Le aziende più virtuose chiedono strumenti globali come tax credit e corridoi doganali privilegiati a supporto di queste scelte sostenibili, per evitare il dumping di chi produce e vende a poco senza guardare ai danni ambientali.

La posizione di Textile exchange è che, se non cambierà tutta l’architettura del commercio, l’industria della moda non riuscirà a imboccare una traiettoria in linea con l’accordo di Parigi. Sarebbe anche un modo per indirizzare le risorse necessarie al cambiamento: a questa industria servono almeno mille miliardi di investimenti in più da qui al 2050 per decarbonizzarsi, secondo uno studio presentato a Glasgow dal Fashion for good and apparel impact institute.  

Il nodo della sovrapproduzione

E poi c’è l’elefante nella stanza. Ogni settore ne ha uno, per la moda è la sovrapproduzione, che avviene in ogni momento della vita del capo, dalla fabbrica fino all’armadio. Secondo Or Foundation, ogni anno si produce tra il 20 per cento e il 30 per cento più di quello che si potrà vendere, significa miliardi di oggetti che nessuno comprerà per problemi di previsione della domanda o incapacità di intercettare i trend.

Parliamo spesso della brevissima vita post acquisto dei vestiti, incentivata dai prezzi insostenibilmente bassi del fast fashion, ma c’è un problema altrettanto grande di spreco che avviene prima del consumo.

Le proporzioni sono queste: 92 milioni di tonnellate di spazzatura tessile post consumo ogni anno ma anche 57 milioni di tonnellate pre consumo, pezzi che negozi e magazzini mandano direttamente alle discariche senza che nessuno li abbia mai indossati. Questo è un settore che, mentre raddoppiava la produzione nel giro di un ventennio, vedeva diminuire del 36 per cento il numero di volte che un capo veniva indossato.

Decrescita nel mondo della moda è una parola che si sta facendo strada, sta finendo il tempo in cui era un compito esclusivamente affidato al consumatore, al quale si chiedeva di comprare di meno mentre si produceva di più e si abbassavano i costi. È la versione fashion della sfida complessiva globale sulla transizione ecologica.

I paesi devono saper slegare la crescita dalle emissioni di gas serra, allo stesso modo i brand di abbigliamento devono riuscire a separare la crescita finanziaria dall’uso smodato delle risorse. Al momento, sono intenzioni e obiettivi, ma almeno, nel 2021, il mondo della moda sembra aver finalmente visualizzato le sfide che ha di fronte.

© Riproduzione riservata