Si può dare una pacca amichevole al braccio del papa? E chi può farlo? Molti tra quanti hanno visto in televisione l’incontro, il 12 maggio scorso, di papa Bergoglio con Giorgia Meloni in occasione dei truci “Stati Generali della natalità” sono rimasti colpiti da alcune cose. Non solo dal fatto che il papa avesse accettato di partecipare come un qualunque relatore alla convention di un’associazione privata dalla natura non del tutto chiara, ma soprattutto da una serie di gesti della presidente del consiglio, anche lei invitata d’onore.

Meloni si è presentata in una tenuta che somigliava pericolosamente (per colore e per tessuto) a quella del Papa, violando una regola di “armocromia” universalmente riconosciuta, che impone di non indossare mai nulla che somigli all'abito dell’anfitrione o della persona più importante. Il papa stesso non ha potuto non farglielo notare, con una battuta fintamente scherzosa. Ma non basta.

Giorgia ha parlato di nascite in calo e uteri in affitto, con un discorso che è stato più che altro un comizio, urlando minacciosa, guatando sbieca, usando formule pesanti, agitando il dito ammonitore come fosse su una piazza, del tutto incurante di avere il Papa lì accanto. Finito lo show, si è seduta accanto a Bergoglio (solo loro due sul palco, su grosse poltrone identiche) e, allungando cameratescamente la mano, gli ha fatto pat pat sul braccio, poi si è fatta grandi risate, lo ha salutato stringendogli la mano con entrambe le sue: insomma lo ha trattato come farebbe un’ostessa con un vecchio cliente.

Il timore di essere toccati

Che cosa ha violato, la nostra presidente? A pagina uno del suo straordinario Massa e potere (1960), Elias Canetti ricorda che “nulla l’uomo teme di più che essere toccato dallo sconosciuto”. E aggiunge: “Tutte le distanze che gli uomini hanno creato attorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati.”

Una parte importante del libro sviluppa questo pensiero, mostrando con vasta documentazione come nella storia i potenti abbiano escogitato mille trovate proprio per evitare di esser toccati. Tra queste, è straordinario il rituale che si usava a Bisanzio nel X secolo: l’imperatore riceveva gli ambasciatori seduto su un trono che, quando quelli gli si prosternavano dinanzi, sospinto da un meccanismo invisibile, si sollevava fino a toccare il soffitto.

Quando l’ambasciatore alzava il capo, si trovava sovrastato da questo trono ormai intoccabile.

Il rispetto delle distanze

Senza arrivare a tanto, ricordiamo che il papa si è mostrato in pubblico per secoli (fino al 1978, Giovanni Paolo I) assiso su una “sedia gestatoria” portata a spalla da otto “sediari”, di almeno due metri più alta delle teste attorno. Anche le persone ammesse alle sue udienze seggono ben distanti da lui. E quando il presidente della Repubblica incontra gruppi di diversa dimensione, tra loro e lui è sempre posta una gran distanza.

La presidente ignora questa regola, che, prima che di cerimoniale, è di tipo etologico: viola il timore di essere toccati da una “sconosciuta” come lei. Ma tutta la sua sceneggiata è stata in violazione di qualcosa: ha stretto la mano al papa con una confidenza da amiconi; ha tenuto un’invettiva da comizio ad alta voce; si è seduta a meno di un metro da lui (un set maliziosamente preparato ad hoc), quindi in posizione per mettergli (come si direbbe popolarmente) “le mani addosso”, e raccontargli qualcosa che ha condito con gran risate a bocca aperta.

Il Quinto Stato

La frattura è grande e travalica di molto la persona di Meloni. Di che si tratta? È accaduto che ha cominciato a farsi avanti un nuovo “stato”. Non si tratta del Quarto Stato proletario della famosa tela di Pelizza da Volpedo, ma di un Quinto Stato del tutto nuovo, che mai era arrivato al potere vero, che non conosce le “buone maniere” istituzionali e se le conosce le viola.

Segnali di un profondo cambiamento si erano già avuti in passato, con la Lega, Berlusconi e infine con i 5 Stelle. Allora cominciarono infatti ad accadere cose mai viste. Il 16 novembre 1993, un leghista (del cui nome non voglio ricordarmi) sventolò in parlamento una corda di cappio; il 24 gennaio 2008 (giorno della caduta del governo Prodi), due senatori di Alleanza Nazionale festeggiarono l’evento con una truce gag in aula, rimpinzandosi di mortadella e tracannando prosecco.

Anche il Movimento 5 Stelle, sebbene ormai in declino, un brusco cambiamento di linguaggio e di maniere l’ha portato: a partire dagli annunci dei primi tempi («Apriremo il parlamento come una scatola di tonno») e delle “minacce” di Grillo («Arrendetevi, siete circondati»), ha spesso trasformato le logiche politiche in vaudeville.

Berlusconi, per parte sua, con la retorica machista (barzellette volgari, battute, epiteti) e i suoi contegni, inaugurò una linea di trasgressione delle regole che ha lasciato tracce profonde. A darne un’interpretazione candida ma pertinente fu l’indimenticata Nicole Minetti, l’igienista dentale piazzata nel consiglio della Regione Lombardia dal Cavaliere. Nel 2012, prima di esser costretta a furor di popolo a dimettersi, dichiarò: «La politica non è solo per gente preparatissima». È sufficiente avere «tanta voglia di fare».

Nuovi confini

Ora si stanno scavalcando altri confini. I Fratelli d’Italia, arrivati al comando, mostrano che la politica non richiede un know-how speciale: essere cognato di un capo o avere una sorella come consigliera può bastare. Ciò dipende probabilmente dalle scaturigini sociali di questo gruppo: gente di periferia o marginale, priva di titoli di studio e di respiro culturale, senza preparazione (talvolta fiera di non averne), senza coscienza del bene pubblico o del senso della delega che riceve, dominata dal risentimento, convinta che la politica sia la continuazione del reality con altri mezzi. I casi individuali sono troppo numerosi per doverli citare qui.

Insomma, quel che accade è che avanza l’uomo-massa che descriveva precocemente un finissimo analista come José Ortega y Gasset per la Spagna degli anni Venti, denunciandone la “ribellione”, cioè l’impulso ad accedere al potere e imporre i proprio standard anche agli altri. Il libro di Ortega y Gasset (La ribellione delle masse, 1929) meriterebbe un’attenta rilettura, e non solo perché si avvicina il suo centenario.

Descrive infatti con straordinaria preveggenza il mondo psicologico e culturale del Quinto Stato arrivato al potere, cioè alla possibilità lungamente desiderata di imporre le proprie regole. Il nuovo ceto “non è indotto a limitarsi in nessun senso, non ammette veti o limitazioni di alcun tipo” e si lancia a “dirigere la società senza alcuna capacità di farlo”, anzi diffondendo “volgarità intellettuale sulla vita pubblica”. Non c’è questione della vita pubblica su cui non intervenga, “cieco e sordo qual è, imponendo le sue opinioni”.

Il crollo dei codici

I codici (di comportamento, di linguaggio, di presenza in pubblico) stanno crollando uno a uno. Gli esempi di ciò che il primo semestre di governo ci ha dato sono numerosi: dalle dichiarazioni del ministro dell’Istruzione sul carattere educativo dell’umiliazione, alla tesi del ministro della cultura che Dante è di destra, dalla scelta di personaggi dai dubbi curricula a campagne pubblicitarie che hanno fatto ridere il mondo, al lancio di logo grotteschi (come quello nuovo del ministero dell’istruzione)…

Ortega y Gasset profetizzava anche che, coi nuovi arrivati, ci si deve abituare “ad aspettarsi il peggio”. Sebbene su questo punto gli oracoli oggi siano esitanti, bisogna continuare a sperare di no.

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