«Ho un libro che potrebbe piacerti» mi scrive l’editor di Utet. Parla di libri usati, delle storie di chi li ha posseduti e di chi li fa risorgere, di depositi, eredità, bancarelle, cacciatori di edizioni rare o spacciatori di tascabili bestseller. Quando me lo dice sono un po’ in imbarazzo, come chi è stato beccato a esercitare un vizio segreto, un interesse intimo e un po' morboso: come ha fatto a capirlo? Si vede così tanto questa mia passione per l’universo di seconda mano e per chi lo abita?

Quando annuncio bofonchiante alla mia compagna che esco a fare due passi e scivolo via furtivo, temo sempre che possa credere che vado a incontrare un’amante: e invece sa benissimo che sto andando sotto i portici di via Po, vicino all’università, nella Shangri-La dei bouquinistes torinesi. Forse lei preferirebbe la storia dell’amante, almeno ci sarebbero meno problemi di spazio in casa.

Un popolo sperso

Compro libri, anche in grandi quantità l’ha scritto Giovanni Spadaccini, “libraio d’occasione” che, dopo un dottorato in antropologia ha lasciato la ricerca e ha aperto la libreria dell’usato Il libro risorto a Reggio Emilia. Ora, io non conosco Spadaccini ma già questo dettaglio me lo rende più simpatico, anzi simpatetico. C’è un che di intrinsecamente romanzesco in questa parabola: l’autore mi perdonerà, ma si sa che quando scriviamo un libro, un libro sui libri ma soprattutto sulle vite minori, laterali, divaganti o pazze di chi li ha posseduti, dobbiamo essere pronti a venir spossessati anche della nostra, di vita. E allora in questo volgere le spalle alla carriera accademica e proseguire l’antropologia con altri mezzi, cioè andando a caccia di dettagli umani nelle librerie dismesse, nei ricordi dimenticati tra le pagine da sconosciuti, ci vedo l’essenza del fascino di questo mondo: un rifiuto dello tsunami delle novità, del tempo furente che tutto disgrega e dissipa, della sua indifferenza e violenza. Una scelta di campo: quella per gli irregolari, gli sconfitti, i malinconici.

Un popolo sperso il cui santo patrono è indubbiamente Walter Benjamin. Forse non tutti sanno che per un certo periodo della sua giovinezza, Benjamin si guadagnò da vivere vendendo libri usati. Era il suo tentativo di raggiungere l’indipendenza economica dei genitori borghesi, in particolare dal padre sempre più preoccupato per quel figlio inconcludente e velleitario che non riusciva a farsi una posizione. Come da cliché, il padre di Benjamin voleva che il figlio si impiegasse in banca: nel 1922 Walter aveva già trent’anni e il fatto che il padre Emil potesse pensare che quella creatura in costante imbarazzo esistenziale fosse adatta al lavoro impiegatizio fa sorgere qualche dubbio sulle capacità di giudizio del genitore.

Fatto sta che Benjamin guadagnava qualche marco extra nel commercio dei libri, magari comprandoli a poco prezzo da una parte e rivendendoli a prezzo maggiore nei quartieri occidentali di Berlino, ancora relativamente benestanti nonostante la crisi del primo dopoguerra. Solo chi ha racimolato qualche soldo così può capire l’entusiasmo con cui una volta Benjamin raccontò all’amico Gershom Scholem di aver comprato un libro a Heidelberg per 35 marchi e di averlo venduto a Berlino per 600. Ha un che di tragico o di ridicolo – squisitamente benjaminiano – che molto spesso quei pochi soldi vengano adoperati per comprare altri libri.

Del resto, mi dispiace per Spadaccini (e per me), ma nessuno diventa ricco vendendo libri, né nuovi né usati. Secondo Gaston Gallimard, il fondatore dell’omonima casa editrice, l’unico modo per diventare milionari vendendo libri è nascere miliardari. Si può solo scendere. Il fatto poi è che poche merci perdono valore in fretta come i libri, come sa chiunque abbia provato a rivendere i suoi. Senza contare che oggi è diventato molto più facile procurarsi un libro di cui si ha bisogno: online posso trovare praticamente qualsiasi testo mediamente diffuso, nuovo o usato, e farmelo arrivare a casa il giorno dopo o poco più. Il prezzo di un tascabile, poi, è tale che è quasi più conveniente ricomprarlo quando se ne sentirà il bisogno che fargli occupare dello spazio in casa.

Il caos dei ricordi

Ma allora cosa unisce me, Spadaccini e quella magnifica e variegata tribù che popola il suo negozio, «vecchi professori tossicomani di prime edizioni, trentenni segreti al mondo appassionati di scienze e filosofie che anch’io avevo amato o stavo scoprendo proprio in quel momento», «persone che non avevo mai visto in giro, e di cui ignoravo l’esistenza» ma che si riconoscono e riuniscono intorno a uno scaffale di libri usati?

Benjamin, sempre lui, diceva che quando spacchettiamo una biblioteca siamo invasi dalla «marea sigiziale dei ricordi». Come treni notturni, infatti, i libri trasportano oltre alle informazioni contenute tra le loro pagine, anche degli altri passeggeri, dei compagni segreti: la memoria dell’acquisto, l’occasione del possesso, quel misto di caso e destino che ce li ha fatti incontrare. «Se ogni passione confina con il caos, quella del collezionista confina con il caos dei ricordi». È un’arte malinconica, quella del maneggiare libri usati, piena di scoperte e consolanti nostalgie. Comprare un libro usato, questo è Spadaccini a scriverlo, vuol dire ricordarsi «che i libri ci sopravvivono, assai meno deperibili della nostra carne, e che intessono un dialogo tra loro lungo i secoli, appostati sugli scaffali delle librerie dell’usato».

Da dove arrivano i libri che nottetempo vanno a riempire gli scaffali di remainders e bancarelle? Il racconto di questa vita segreta dei libri e dei loro possessori, delle mani che li scambiano, è la parte più bella e interessante di Compro libri, anche in grandi quantità. Sono storie di genitori morti che si vogliono dimenticare, o di rovesci economici, di sfortune improvvise, di divorzi e alimenti da pagare. A volte sono storie di fede perduta, di strade abbandonate, di improvvise stanchezze e desideri di lasciarsi tutto alle spalle. Altre sono abbandoni alimentati «dalla rabbia, dall’inimicizia e dal bisogno di oblio verso una persona, o dalla disperazione e dalla delusione per la vita. Il più delle volte, insomma, questo carico di bellezza viene dal male, come non diversamente quella stessa bellezza che riempie le loro pagine a suo tempo è venuta dal dolore e dal male».

Non è un caso che il primo, magnifico, romanzo di Daniele Del Giudice, Lo stadio di Wimbledon (Einaudi, 1983), si apra con un vagabondaggio tra librerie. Il narratore è appena giunto a Trieste dove vorrebbe ricostruire la vita di Roberto Bazlen, il lettore assoluto, lo scrittore che non ha lasciato (quasi) niente di scritto, consulente editoriale mitico e sfuggente, figura importantissima per la cultura italiana. Ebbene, il narratore, dicevo, uscito dalla stazione si mette alla ricerca di qualche informazione che lo possa aiutare: prima nell’austera e un po’ museale libreria antiquaria che fu di Saba, poi in una di «libri correnti». Niente.

Troverà gli indizi che cerca nella terza che visita: una caotica libreria dell’usato, «parecchi libri, senza nessun sussiego», «collane intere non antiche ma vecchie». Indirizzato dalle scoperte fatte in un libro «non antico ma vecchio» che ha trovato lì, il narratore va a visitare un’anziana che da giovane aveva conosciuto Bazlen. Qui la donna pronuncia una frase che nella mia copia, lo vedrete anche voi se mai me ne disferò (ne dubito), è sottolineata più e più volte. Un auspicio, un amuleto. «Bisogna tenere distinti i libri dai dolori, capisce cosa voglio dire?»

Ecco perché, alla fine, alcuni di noi sono tanto sedotti da un «libro risorto». Perché ci piace sottometterci all’illusione che in un libro o in una biblioteca sia trattenuta, come per contatto prolungato, l’identità di chi l’ha posseduto. Alla faccia del capitalismo digitale che dai nostri dati ricostruisce un target pubblicitario, nei libri che abbiamo posseduto sogniamo che ci sia una parte di noi, più gentile, più silenziosa, magari dimenticata, sconfitta ma, forse, felice.

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