Mia moglie mi svegliò, e mi misi meccanicamente in ascolto.

«Piange di nuovo?», chiesi.

«Piange di nuovo».

Restai fermo nel letto, in sottofondo i singhiozzi giungevano attutiti ma ormai ineccepibili. Anche mia moglie sembrava paralizzata. Nessuno dei due aveva voglia di alzarsi, anche se era del tutto evidente che uno dei due avrebbe dovuto farlo. Del resto a momenti sarebbe suonata la sveglia. Gettai uno sguardo alla finestra. L’aria andava ripulendosi dalla notte, riverberando sulle tende una tenue luce d’opale: l’autunno ci diceva che nulla è destinato a durare. 

Desideri

«Io preparo la colazione, tu cerchi di calmarla?», proposi.

Mia moglie si tirò su come un automa: quello fu il suo modo per acconsentire. Poco dopo mi alzai anch’io e trovai a fatica la strada per la cucina. Accesi la tv e lasciai che la replica di una serie accompagnasse le mie operazioni ai fornelli: un uomo sposato diventato una specie di traditore seriale. Mia moglie mi raggiunse quasi subito. Lasciò che le imburrassi le fette biscottate e le versassi il caffè nella tazza. Mentre mangiavamo, uno di fianco all’altra, le immagini della soap presero il sopravvento.

«Questo tipo se ne fa una dietro l’altra», osservò mia moglie.

«È il suo modo disperato per combattere il calo del desiderio».

«Mi sembra che il suo desiderio sia tutto fuorché calante».

Poggiai una mano sul ginocchio di mia moglie, ma senza nessuna reale intenzione.

«Tua figlia vuole un cane», ricapitolò mia moglie.

«Ancora?».

«Dice che vorrebbe un cane».

«E quando le avremo preso un cane che cos’altro s’inventerà?».

«Se non glielo prendiamo, non potremo mai sapere se è solo un capriccio».

Mi alzai di scatto, finii di prepararmi. Scendendo in ascensore vidi che le foglie degli olmi erano diventate di un giallo ocra. Era come se una mano invisibile le avesse colorate nello spazio di una notte. Attraversata la corte del palazzo sparii dentro la portineria.

«Pacchi?», chiesi per finta.

La portinaia sorrise, prima di baciarmi in bocca. «È ancora troppo presto, sciocchino».

In ufficio

In ufficio, già verso le nove, vidi che era arrivata la prima gragnola di messaggi. Poi arrivò la telefonata. Immaginai che mia moglie avesse composto il numero subito dopo aver lasciato la bambina a scuola.

«Glielo prendi oggi?», mi domandò.

«Ti richiamo appena posso».

«Glielo prendi quando esci dal lavoro?».

«Ti richiamo appena posso, davvero».

Attaccai e andai al bar con la collega del terzo piano, quella nuova. Avevamo già preso alcuni caffè quindi non ci fu nulla di strano nel proporle una “revisione dati” nello sgabuzzino delle scope. Non le dissi niente, e neppure lei disse qualcosa a me. Io ero eccitato, lei qualcosa di più. Sembrava emozionata e la cosa m’infastidì. Dopo un quarto d’ora era di nuovo alla mia scrivania. Suonò il telefono.

«Glielo prendi sì o no?», mi chiese.

«Prendere cosa?».

«Hai capito benissimo… Voglio che tu le prenda un cane».

«Perché non glielo prendi tu?».

«Ho una settimana di fuoco in ufficio, è già complicato portarla a scuola. C’è un canile proprio a due passi dal tuo ufficio».

Mi massaggiai le tempie. Il ramo di un acero picchiettò alla finestra mosso da una folata di vento. Per un istante pensai che sarebbe stata una buona via di fuga, sgattaiolare sull’albero e vivere lassù. Certo, persa anche l’ultima foglia mi avrebbero scoperto.

«Prenderle un cane vuol dire prenderci un cane», dissi, con gentilezza.

«Non importa».

«Bisognerà portarlo a fare i suoi bisogni, lasciarlo a qualcuno durante le vacanze…».

«In qualche modo faremo».

Ancora feci una pausa per non diventare scortese. Il punto era che ne avevamo parlato fino alla nausea. Parlarne era stato un modo astuto per rinviare, ma evidentemente adesso si faceva sul serio.

«E di che razza dovrei prenderlo?», domandai, tanto per farla sembrare una cosa troppo complicata.

«Guarda in canile. Salviamo un cane, uno qualsiasi. Tua figlia non è abbastanza grande da distinguere una razza da un’altra».

«Però è abbastanza grande per prendersene cura, giusto?»

«Non è questo il punto».

«E qual è il punto?».

«Che vuole un cane, tua figlia vuole un cane».

Idee

Fuori dall’ufficio, prima di passare a prendere il cane, suonai al citofono di un’amica. Erano anni che ogni tanto la vedevo, sempre a casa sua. La cosa era abbastanza semplice: se c’era e poteva mi apriva, se non c’era o non poteva non mi apriva. Single ostinata – ideologicamente single –, non si emozionava tanto facilmente. Rientrai un paio d’ore dopo, ma mia moglie andò su tutte le furie.

«È uno scherzo?», fece.

«Guarda com’è carino».

«È carino, ma non è un cane».

«La bambina non è abbastanza grande per prendersi la responsabilità di un cane vero».

Mia moglie scosse la testa, pareva addolorata in un modo incurabile. Provai a raccontarle tutto dal principio. Come da accordi, ero uscito con la precisa intenzione di prendere un cane. Prima del canile avevo incontrato un negozio d’animali. Me n’ero rimasto a lungo impietrito a fissare la vetrina. Da una parte c’era una gabbia con dei criceti che continuavano a correre dentro a quelle ruote assurde. Dall’altra parte, cuccioli di cane. Tenevano il muso basso, affondato nella segatura chiazzata d’urina. Avevano grappoli di cispe giallognole intorno agli occhi. L’uggiolio costante veniva a malapena attutito dalla vetrina.

«E allora?», chiese mia moglie.

«Mi è venuta l’idea del negozio di giocattoli».

Mia moglie riprese in mano il peluche. Lesse l’etichetta: “Tenere lontano dalla portata dei bambini al di sotto dei tre anni, alcune parti potrebbero essere ingerite”. Era grande e grosso. Esageratamente morbido. Aveva un orecchio pezzato e uno sguardo simpatico che ricreava alla perfezione lo spirito amichevole dei cani veri.

«Non dico che sia brutto…», ammise.   

«È perfetto».

«Ma non è quello che ci ha chiesto, non è quello di cui ha bisogno», concluse mia moglie. «Adesso vai a restituire questo cane finto e ne prendi uno vero, ok?».

«D’accordo».

«Tra poco esce da scuola, oggi aveva il tempo pieno».

Saltare di gioia

Tornai al negozio di giocattoli e a malincuore restituii il peluche. Poi composi velocemente il numero di un’altra amica che viveva in zona. Le chiesi se poteva raggiungermi al più presto e dieci minuti dopo entrò nella mia macchina tutta trafelata. Io avevo poco tempo, dovevo ancora passare dal canile. Ma anche lei sarebbe dovuta rientrare presto, aveva lasciato la cena sul fuoco. Era perfetto, strabiliante, quando la fretta univa invece di separare.

Dopo, cercai di ignorare le puzze e i rumori immondi di quegli animali e cominciai la trafila per l’adozione di un piccolo meticcio. Non erano tempi lunghi, ma comunque non mi avrebbero dato subito il cane. Tirai quasi un sospiro di sollievo. L’ultima luce del giorno si smorzò di botto, come la fiamma di una candela messa sottovetro: l’autunno ci ripeteva che nulla è destinato a durare.

Appena varcata la soglia di casa la bambina mi chiamò a squarciagola in camera sua.

Aprii la porta e feci la domanda di rito: «Finiti i compiti?».

Mia figlia mi saltò al collo e mi affibbiò un bacio. «Sto guardando i cani sul telefono!».

«E allora? Cosa volevi dirmi?».

Mia figlia mi porse il telefono e fu allora che riconobbi il peluche. Era grande e grosso. Esageratamente morbido. Aveva un orecchio pezzato e uno sguardo simpatico che ricreava alla perfezione lo spirito amichevole dei cani veri.

Mia figlia si allargò in un sorriso disarmante, che scioglieva il cuore, di quelli che sapeva fare lei. «Ecco il cane che voglio! Papà, ti prego!».

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