L’Italia non è un paese per madri, soprattutto se lavorano. Quindi non ci lamentiamo se poi non si fanno, i figli. I cambiamenti culturali e sociali che hanno accompagnato questi ultimi decenni hanno portato, nelle donne, una maggiore consapevolezza dei propri desideri e delle proprie possibilità con una conseguente messa in discussione del modello dominante, quello patriarcale, che ci vorrebbe tutte mogli e madri devote che rincorrono le aspettative sociali come se fossero stellette da attaccare sul petto.

Ci sono donne che non vogliono figli, altre che decidono di dedicarsi alla cura della famiglia e ci sono quelle che danno priorità alla carriera professionale. Si chiama autodeterminazione, sono scelte di vita che in nessun modo dovrebbero essere additate o giudicate.

Poi ci sono donne che vorrebbero avere figli e lavorare ma si scontrano con un sistema che non si è evoluto insieme a loro, restando congelato nel secolo scorso.

Un esempio su tutti sono i servizi scolastici per l’infanzia: dai pochi posti degli asili nido fino agli orari anacronistici rispetto alle esigenze del lavoro contemporaneo – diciamocelo, chi può permettersi di andare a prendere i figli alle 16? –  non offrono una soluzione stabile e costringono a una gestione familiare complessa e costosa, in termini economici e di carico mentale (indovinate quest’ultimo su chi pesa di più nella coppia?).

I dati che legano disoccupazione femminile e accesso ai servizi scolastici per l’infanzia, che sono al centro di ricerche scientifiche ma vengono spesso discussi in maniera retorica, segnalano un’emergenza che in parte –  ma solo in parte – verrà tamponata, con decenni di ritardo, dal Pnrr e dall’assegno unico universale (che, ricordiamolo, estende giustamente a tutte le famiglie benefit già percepiti da molte). Sappiamo benissimo che non è abbastanza, quindi perché non si fa di più?

Nidi, questi sconosciuti

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Partiamo dall’asilo nido, che dopo sperimentazioni private e aziendali diventa servizio pubblico nel 1971, per assistere con programmi pedagogico-educativi le bambine e i bambini fino ai tre anni di età e permettere alle madri di lavorare. Si tratta di un percorso che ha visto le donne protagoniste, con la rivendicazione del lavoro extradomestico come momento di emancipazione e quindi la necessità di servizi che lo rendessero possibile.

Sono passati cinquant’anni e siamo ancora qua a chiedere le stesse cose: più posti al nido e più politiche per la parità di genere. La legge prevedeva la costruzione e gestione di 3.800 asili nido tra il 1972 e il 1976 ma (non ci stupisce) il progetto fallisce: ci vogliono vent’anni per arrivare all’obiettivo e si registrano fortissime differenze tra Nord e Sud, come spiega Nicola S. Barbieri nella sua pubblicazione Asili nido e altri servizi educativi per la prima infanzia Italia, sottolineando come «nelle regioni meridionali, a fronte di una debole domanda (non sempre frutto di libera scelta) gli enti locali hanno fatto ben poco per sensibilizzare e far prendere coscienza le famiglie dei propri diritti».

Oggi le cose non sono cambiate e al Sud i posti disponibili sono il 14,3 per cento sul totale dei bambini 0-3 anni, mente al Centro e Nord si viaggia sul 31-34,9 per cento. L’obiettivo fissato dal Consiglio europeo è del 33 per cento e, se facciamo la media tra Nord e Sud, l’Italia sfora al ribasso di diversi punti fermandosi al 26,6 per cento.

È vero che con il Pnrr e gli investimenti previsti (4,6 miliardi di euro per 265mila nuovi posti) si punta a raggiungere una media nazionale del 40 per cento entro la fine del 2025, ma questo non garantirà equità di accesso tra Nord e Sud. A dimostrarlo è che il bando sugli asili nido ha ricevuto, in prima battuta, solo la metà delle richieste rispetto ai fondi disponibili.

Prorogato di un mese, raggiunge il 75 per cento e, indovinate un po’, il grosso problema restano le regioni meridionali, criticità segnalata anche dal profilo Mammadimerda di Francesca Fiore e Sarah Malnerich, sempre molto attente alle questioni legate alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro oltre al non farci sentire sole nella nostra inadeguatezza. Se i fondi europei erano la nostra migliore chance, forse potevamo giocarcela meglio.

Più asili nido, più occupazione femminile

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Proprio al Sud, guarda caso, il tasso di occupazione femminile è il più basso: nel 2020 era al 32,2 per cento, che significa che più di due donne su tre, tra i 15 e i 64 anni, non lavorano, contro il 49 per cento di media nazionale, dato che non ci fa fare i salti di gioia considerando che in Spagna è al 57 per cento, in Francia al 62 per cento e senza scomodare la Svezia dove è al 74 per cento, solo 3 punti percentuali meno di quello degli uomini.

Paesi dove si fanno più figli che da noi, tanto per dire. I dati sull’occupazione femminile ci dicono che le più penalizzate sono (ovviamente) le mamme: le donne con figli sotto i 5 anni hanno il 25 per cento in meno di possibilità di trovare un lavoro rispetto alle coetanee che non ne hanno.

E, come se non bastasse tutto questo a farci capire quanto la questione dell’accesso agli asili nido sia legata all’occupazione femminile, c’è la ricerca di Edoardo Magalini, dottore della SciencesPo, che nella sua tesi di master si interroga proprio sul caso italiano, e sul perché si distingua a livello europeo per la sua – cito testualmente – «drammaticamente bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro e tasso di fertilità».

Secondo la ricerca, l’accesso alle scuole d’infanzia aumenta del 17 per cento la probabilità di essere assunta come dipendente e del 19 per cento di entrare nel mondo del lavoro. Un aumento delle ore settimanali del servizio scolastico equivale a un punto percentuale in più. Perché, allora, non si trova una soluzione? La risposta, come spesso accade, sono i soldi.

La gestione degli asili nido è molto costosa e proprio per questo, nel 1983, passa da “servizio pubblico” a “servizio a domanda” per il quale viene chiesta alle famiglie una quota contributiva dal 30 per cento del costo reale.

Questo diventa un disincentivo perché, se da un terzo a metà del mio stipendio, ogni mese, serve a coprire la retta del nido, considerando quanti giorni di malattia fa mediamente un bambino appena inserito e quindi quanti permessi si dovranno chiedere, sono sicura che sia la scelta più sensata per la famiglia?

Se ne parla tanto ma la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle donne, semplicemente, continua a non essere vista dalla politica come una priorità.

Niente lavoro, niente nido (e viceversa)

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Anche se negli anni l’offerta degli asili nido è aumentata, grazie al contributo di strutture private, aziende ed enti del terzo settore, il problema dell’accesso resta irrisolto. La bassa offerta ha infatti portato, nel pubblico, a un bando che assegna punteggi in base a criteri e tra questi c’è il lavoro: una madre lavoratrice ha più punti di una che non lavora, con buona pace di ogni ricerca scientifica che dice che se non ho il posto al nido ho molte meno possibilità di trovare un lavoro (del resto, se non so dove mettere i figli, forse neanche lo cerco).

Se non ho un lavoro, non posso permettermi neanche un nido privato dove i requisiti per l’iscrizione sono spesso più elastici, a fronte però di una retta più alta. Questo ci fa entrare in un circolo vizioso dal quale si potrebbe uscire – e si dovrà uscire – solo con un aumento sostanziale dei posti disponibili, una diminuzione delle rette e un sostegno alla maternità che offra una visione: come assegni più alti, una quota di giorni di malattia dei figli retribuita (su questo c’è addirittura differenza tra pubblico e privato), più congedi per i padri, forme di flessibilità sul lavoro e soprattutto negli orari scolastici, compreso quello di estendere la frequenza delle scuole d’infanzia almeno per il mese di luglio.

Tra gli obiettivi del Pnrr c’è quello di aumentare il numero delle scuole primarie a tempo pieno. Dopo un rapido sondaggio nei cortili delle tre scuole che frequento quotidianamente mi sento però di rilanciare: apriamole tutte fino alle 18.30. Riempiamole di contenuti, corsi creativi e stimolanti, sportivi e culturali, perché davvero non si trova un senso al fatto che si debbano andare a prendere i figli alle 16 a scuola per poi portarli a fare attività extrascoltastica circa due volte la settimana, aspettare fuori più di un’ora (che spesso gli spazi dove si svolgono non sono logisticamente comodi) e riportarli a casa (questo moltiplicato per il numero di figli che si hanno), giocandosi così l’opportunità di aumentare le ore lavorative settimanali oppure pagare qualcuno per farlo, che i nonni sono ormai un’utopia e si deve prendere atto di questa nuova condizione sociale.

La strada verso la parità di genere è lastricata di tante buone intenzioni, mettiamoci qua e là anche qualche pietra di concretezza.

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