Il leggendario editor Robert Gottlieb, che lavorò su molti suoi romanzi per l’editore Knopf negli anni Settanta e Ottanta, a chi gli chiedeva se John le Carré fosse uno scrittore di genere rispondeva: «È un grande scrittore per il quale le spie sono semplicemente un soggetto. Definire le Carré un autore di spionaggio è come dire che Conrad è uno scrittore di avventure marinare o Jane Austen un’autrice di commedie domestiche. Chi è l’idiota che può dirlo?»

John le Carré, un gigante della letteratura inglese del Novecento, è morto sabato 12 dicembre. Domenica ne ha dato notizia il suo agente. Le Carré aveva 89 anni: si è spento per complicazioni polmonari ma non legate al Covid-19.

Come noto le Carré era uno pseudonimo: David Cornwell nasce nel 1931 a Poole, una cittadina del Dorset, da un padre violento che entra ed esce di prigione, mentre la madre lascia la famiglia che lui ha cinque anni. È a Berna a studiare tedesco quando, alla fine degli anni Quaranta, le Carré viene avvicinato dai servizi segreti, in cerca di giovani brillanti e bravi con le lingue.

Dopo aver insegnato letteratura qualche tempo a Eaton, entra in servizio attivo nel MI6, lavorando sul campo con gli agenti al di là della cortina di ferro. Qui incontra anche il collega John Bingham che lo ispira per alcuni tratti di quello che diventerà il suo personaggio più famoso, George Smiley.

Un’insegna a Bonn

Nel 1961 pubblica il suo primo romanzo, Chiamata per il morto: ma prima di darlo alle stampe lo deve far approvare ai suoi superiori. Non hanno nulla in contrario, ma «anche se avessi scritto un libro sulle farfalle, mi dissero, dovevo usare uno pseudonimo», ricorda le Carré in un’intervista. Il suo editore (di origini polacche) gli propone qualcosa di «tipicamente anglosassone come Chunk-Smith». Alla fine si farà ispirare dall’insegna di una sartoria a Bonn, l’allora capitale tedesca, e da quel giorno le Carré diventerà sinonimo di romanzo di spionaggio.

“Il quadrato” è un nome che si rivelerà azzeccato: quadrati sono anche i suoi personaggi, a partire da Smiley, così apparentemente posato, basso, tarchiato, poco dinamico (l’opposto di qualsiasi 007 da film), spesso silente, portato in televisione in una celebre miniserie della Bbc con lo sguardo perennemente perplesso e indagatore di Alec Guinness. Smiley compare in dieci romanzi di le Carré, non sempre protagonista, come in quello che diede la fama al suo autore, La spia che venne dal freddo del 1963.

Ma è nella Talpa che Smiley vive la sua apoteosi. Tra i capolavori assoluti di le Carré, La talpa racconta di uno Smiley richiamato in servizio dal “Circus” (il nomignolo che nei suoi romanzi avevano i servizi segreti inglesi) per scoprire la talpa nascosta ai massimi livelli dell’intelligence e che tanti danni militari e umani stava procurando.

Quando il libro esce nel 1974, era ancora fresca la notizia del tradimento di Kim Philby e dei Cambridge five, i cinque rampolli dell’aristocrazia inglese che, scalando le gerarchie dei Servizi (Philby in particolare), hanno lavorato come agenti doppiogiochisti per l’Unione sovietica. La diserzione di Philby in Urss nel 1963 e la scoperta dei danni che i suoi quasi trent’anni di doppio gioco hanno causato, non è solo l’ispirazione del romanzo ma anche uno dei motivi che spinsero le Carré a lasciare l’intelligence. «Sono entrato nei Servizi nello spirito di John Buchan (autore dell’ingenuo romanzo spionistico I 39 scalini), e ne sono uscito che mi sentivo Kafka» ebbe a dire una volta.

Il successo, comunque, fu clamoroso. Una volta fu contattato da un redattore dell’Oxford Dictionary per chiedergli se era stato lui a inventare l’uso della parola “talpa” per indicare un doppiogiochista.

Il nuovo ordine mondiale

La fine della Guerra fredda non segna certo la fine della carriera di le Carré anche se per un certo periodo il nuovo ordine mondiale non sembra più ispirarlo come il precedente. Ma nel nuovo millennio torna a essere quell’acutissimo osservatore del mondo che è stato: ad esempio ne Il nostro traditore tipo racconta il riciclaggio internazionale di denaro sporco, un elemento centrale negli equilibri criminali e geopolitici (a fargli da consulente chiama Federico Varese, docente di criminologia a Oxford).

Il suo ultimo romanzo, La spia corre sul campo (Mondadori, come tutti i suoi libri) fa i conti con le conseguenze della Brexit, «una fantasia nata nelle grandi magioni nobiliari inglesi, tra i rampolli di Eaton, una scuola che non ti insegna a governare, ma a vincere, una fantasia basata sull’antico sospetto verso i tedeschi, i francesi e tutta quella gente poco utili in guerra». È come se le Carré si fosse radicalizzato negli ultimi anni, denunciando la corruzione dell’establishment britannico, quell’impasto di privilegio e classismo che crede ancora di poter guidare un impero col pugno di ferro.

Le Carré è sempre stato un appassionato e uno studioso di letteratura, di quella tedesca in particolare: non è un caso che Ingenuo e sentimentale amante, il suo libro più autobiografico e l’unico non spionistico, abbia fin dal titolo un richiamo al trattato settecentesco di Schiller Sulla poesia ingenua e sentimentale. Se i romantici tedeschi hanno fatto del contrasto tra la sensibilità “ingenua” (quella degli antichi che con le cose avevano un rapporto diretto, non mediato) e quella “sentimentale” (quella dei moderni, segnata da un’autocoscienza che porta al distacco e all’alienazione) il cardine della loro poetica, lo stesso ha fatto le Carré per la Guerra fredda.

Il paragone assurdo con Fleming

Spesso è stato fatto un paragone tra le Carré e i romanzi di Ian Fleming con James Bond: tanto questi ultimi erano irrealistici, infantili, grottescamente avventurosi, quanto quelli di le Carré erano sottili, letterari, ricchi di sfumature e chiaroscuri. È uno scontro però troppo facile e paradossalmente sminuente per le Carré: parliamo proprio di due mondi diversi.

Perché quello che le Carré ha saputo raccontare meglio di tutti è la distanza tra la retorica delle ideologie e le scelte di chi era incaricato di difenderle, tra l’idealismo dietro cui si nascondevano gli alfieri della libertà e i compromessi necessari per tenerla in piedi, quella libertà.

In questa distanza ambientava le sue labirintiche storie, mostrando quanto uno spazio apparentemente piccolo, l’attimo in cui commette un tradimento, il respiro che segna la decisione presa, possa spalancare abissi di vastità inaudita. «Chi pensi che siano le spie: preti, santi e martiri? Sono una squallida sequenza di sciocchi, anche traditori, sì, a volte; codardi, sadici, ubriaconi che giocano a cowboy e indiani per dare un senso alle loro vite insulse».

Le Carré, per tutta la carriera, ha scelto un unico soggetto e l’ha ritratto in mille pose diverse, in tutte le sfumature possibili: il tradimento. Ha elevato il tradimento a prisma attraverso cui osservare la storia del secondo Novecento, in particolare di quel lungo conflitto chiamato Guerra fredda. Ma anche come chiave d’accesso per il cuore umano: perché tutti presto o tardi tradiamo qualcuno o qualcosa, il nostro paese, i nostri ideali, le persone che amiamo.

Più spesso, poi, tradiamo noi stessi. Questa guerra chiamata vita confonde i buoni con i cattivi, spinge i primi a usare gli stessi metodi dei secondi, a specchiarsi gli uni negli errori degli altri. Pochi hanno saputo raccontarcelo come le spie stanche, deluse e malinconiche di John le Carré.

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