Tra i tanti #metoo che si scatenano nel mondo, ce n’è uno gigantesco, che non riguarda donne molestate ma un intero continente e che in Italia sembra ignoto.

A sessanta o settant’anni (secondo i casi) dalla conquista dell’indipendenza, diversi stati africani cominciano a rivendicare riparazioni, restituzioni e risarcimenti dalle potenze europee che li hanno sfruttati per secoli come colonie.

Questo processo coinvolge soprattutto la Francia, il più imperialista dei paesi del continente, ma non risparmia affatto gli altri paesi europei (incluso il nostro) e concerne i più diversi ambiti, mostrando per l’ennesima volta che i conti della storia non si chiudono mai.

Gli harkis

Nel febbraio 2017, subito dopo la prima elezione a presidente, in un’intervista da Algeri Emmanuel Macron definì la colonizzazione «un crimine contro l’umanità».

Si attirò ovviamente i fulmini delle destre, ma non per questo si tirò indietro. Nel settembre 2021 ha «chiesto perdono» agli harkis e annunciato una legge di «riconoscimento e riparazione».

Nell’occasione, moltissimi francesi hanno scoperto gli harkis, di cui ignoravano tutto. Sono gli algerini che militavano nelle forze armate francesi durante la guerra d’Algeria e che per questo, dopo l’indipendenza, furono trattati come traditori dai loro connazionali e perseguitati.

Costretti a riparare in Francia, di loro, che pure erano veterani dell’esercito regolare, per decenni non si curò nessuno: niente pensione, niente riconoscimenti, niente ristori.

Non era casuale che Macron scegliesse per le sue dichiarazioni il 2021. Era il cinquantesimo di una tragedia. Il 17 ottobre 1961, durante una pacifica manifestazione della loro associazione, gli harkis furono caricati dalla polizia, che oltre a sparargli addosso uccidendone un gran numero, ne gettò molti nella Senna lasciandoli annegare.

Una legge organica per dare ristoro a quegli uomini e ai loro eredi è stata promessa ma non promulgata. Intanto il dossier resta aperto.

Opere trafugate

È aperto anche un altro dossier, che riguarda le opere d’arte trafugate o comprate illegalmente nei paesi africani: migliaia di pezzi che hanno alimentato le tante raccolte etnografiche del paese.

Musei famosi, come il Musée de l’Homme di Parigi, esponevano essenzialmente oggetti rubati, rimasti in mostra anche quando il museo, trasferito nel 2006 in un’altra parte della città, fu ribattezzato pudicamente Musée du Quai de Branly cambiando radicalmente impostazione ideologica.

Negli ultimi anni diversi paesi (Senegal, Madagascar e soprattutto Benin) rivendicano i loro oggetti e la Francia non può che restituirli, anche a rischio di svuotare i suoi musei.

Nel dicembre 2020, in piena pandemia, è stata promulgata una legge per la restituzione di molte opere. Poco importa se il grande museo panafricano che si sta allestendo in Africa centrale è costruito con soldi cinesi.

L’altro fronte caldo è quello politico. Dopo dieci anni di presenza militare in Mali, teoricamente a contrasto del terrorismo islamico, nel gennaio 2022 i francesi sono stati messi alla porta dal nuovo governo militare e fatti sloggiare alla svelta.

Qui la rottura non è proprio in nome dell’indipendenza, visto che, partiti i francesi, sono arrivati i soliti “consiglieri militari” russi con la banda Wagner. Tensioni pesanti si annunciano anche tra Francia e Algeria.

Namibia e Congo

Un altro dossier dimenticato che riaffiora è quello della Germania in Namibia. Ma cosa c’entra la Germania con la Namibia? Nel 1883 un mercante tedesco, Adolf Lüderitz, acquistò da un capo locale la costa meridionale dell’attuale Namibia e fondò una città a cui dette il proprio nome.

Il governo tedesco, desideroso di crearsi colonie, si annetté il possedimento che denominò "Africa Tedesca del Sud-Ovest” (Deutsch-Südwestafrika). La sua amministrazione si distinse per pretese, ruberie e violenze.

I Nama e gli Herero, due popolazioni locali, tra il 1904 e il 1908 si ribellarono e i tedeschi risposero massacrandoli a decine di migliaia. I numeri sono imprecisati: circa 65.000 nella comunità Herero e 10.000 tra i Nama.

I sopravvissuti furono deportati o finirono schiavi in campi di concentramento. Centovent’anni dopo, il 28 maggio 2021, le autorità federali hanno “chiesto scusa” per i massacri e offerto come risarcimento un miliardo di euro, da spendersi in aiuti. Ma la popolazione è insorta violentemente e la questione non si è chiusa.

Tra le varie forme di riparazione, va detto, quelle usate più di frequente sono le scuse, e a volte neanche quelle. Nei giorni scorsi, il re Filippo del Belgio ha fatto con la moglie una visita di una settimana in Congo (ex Congo Belga), portando in dono la maschera Kakungu, precedentemente esposta al Museo Reale per l’Africa Centrale in Belgio.

Pochi sanno che il Congo fu comprato dal re Leopoldo II nel 1885 come proprietà personale. Il re non ci mise mai piede, ma lo sfruttò spietatamente fino alla morte per procacciarsi prima avorio per monili e gioielli, poi caucciù per le gomme della nascente industria dell’automobile. Le crudeltà e i misfatti perpetrati dai belgi in Congo sono innominabili.

Li racconta Cuore di tenebra di Joseph Conrad e, più ampiamente e da storico, Adam Hochschild nel terribile Gli spettri del Congo. La storia di un genocidio dimenticato, che io stesso suggerii a Garzanti (2022).

Ebbene, benché la visita di Filippo fosse (si stenta a crederlo) la prima di un re belga in una terra che il suo paese aveva martoriato per quasi un secolo e abbandonato tra sanguinose guerre tribali e i feroci saccheggi delle multinazionali, il re non ha chiesto neanche scusa: si è limitato a dire che «si rammarica delle sofferenze e delle umiliazioni che il Congo ha dovuto subire».

Inutile ricordare che nella Seconda guerra mondiale anche l’armata belga aveva arruolato dei congolesi…

I risvegli del mondo d’oggi

I casi di ex colonie che si “risvegliano” sulla scia dei numerosi “risvegli” del mondo d’oggi sono numerosi. Proponendo qualche mese fa la sua candidatura, poi abortita, alle presidenziali, Christiane Taubira (nata a Cayenne, in Guyana) aveva accennato al fatto che il tema delle ex colonie sarebbe dovuto entrare nell’agenda politica francese.

Macron ha risposto d’anticipo, nominando alla cultura una ministra araba libanese, Rima Abdul Malak, e all’istruzione un nero, Pap Ndiaye, di professione storico delle minoranze nere. «La nostra missione», ha dichiarato Ndiaye in marzo, è «fare dell’immigrazione un elemento centrale della storia nazionale».

Le elezioni legislative in corso definiranno un esecutivo diverso, ma è possibile che, se Mélenchon diventasse primo ministro, la componente woke del governo si accentuerebbe.

I fatti che ho illustrato significano forse che i paesi africani cercano un’indipendenza reale? È lecito dubitarne. Ho accennato alla presenza russa in Mali.

È noto che, dal lato dell’Oceano Indiano, i cinesi costruiscono infrastrutture, trasferiscono forza lavoro, concedono prestiti difficilmente restituibili e si assicurano concessioni quasi perpetue di materie prime pregiate, come le terre rare e il cobalto.

I turchi offrono droni e assistenza militare ai paesi dell’Africa mediterranea. Quel che si annuncia non è quindi la definitiva liberazione dell’Africa, ma l’arrivo di nuovi rapaci protettorati.

E l’Italia? Che posto ha in questo subbuglio? Che posizioni assume? Assicura ricostruzione, protezione sviluppo a qualcuno? Non risulta.

Il nostro paese ha avuto pesanti responsabilità nella spoliazione delle sue colonie e nei maltrattamenti alle popolazioni, come il compianto Angelo Del Boca ha raccontato da maestro.

Sembrava che qualcosa si muovesse. Gheddafi aveva avviato negoziati di riparazioni e restituzioni, a cui però gli italiani risposero coi noti episodi di corruzione della Cooperazione internazionale, che costarono la galera a diplomatici e manutengoli.

Fu costretta nel 2005 a restituire all’Egitto la stele di Axum, ma le richieste degli eredi dei soldati africani coinvolti nelle nostre sciagurate imprese coloniali sono, per ora, solo soggetto dei romanzi di Igiaba Scego.

Intanto, la nostra politica estera in Africa la fa l’Eni, alla ricerca di petrolio. Può bastare questo? Oggi il dossier italiano in Africa è coperto di sabbia, ma non è affatto chiuso.

© Riproduzione riservata