Raccogliere una vita professionale così intensa e importante per la storia del giornalismo richiederebbe un libro e non poche righe. Spero che presto qualcuno si dedichi a questa opera: come sempre quando si tratta di persone di enorme caratura umana e professionale come Sergio Zavoli, ci consentirebbe di rileggere in filigrana anche la storia del nostro paese, e che storia!

Oggi, nel giorno nella sua scomparsa, vorrei, molto più semplicemente, sottolineare quello che ci lascia come insegnamento per il presente e per il futuro del nostro mestiere. Il primo è l’importanza della dimensione tempo. Siamo abituati a una informazione quotidiana, direi ora dopo ora, “cotta e mangiata”, dove la notizia esaurisce il racconto e la notizia successiva scaccia la precedente, in un flusso continuo e ininterrotto, dove il tempo di lettura dura pochi minuti, un mare in tempesta senza boe dove fermarsi e coordinate per capire dove va il mondo.

E qui si aprirebbe una “prateria” per il giornalismo di inchiesta, ma la verità è che anche lo spazio dell’approfondimento è diventato vittima di questa accelerazione : per motivi produttivi , certo, fare inchiesta costa tempo, appunto, ma anche perché la necessità di “bucare” la superficie del mare spinge a stringere, a tagliare, a far emergere solo quello che corrisponde al flusso del momento. Sempre di più assistiamo a inchieste che sono tutt’al più una cronaca allargata: il mare del racconto invece è profondo e occorre avere il tempo di scendere giù se si vogliono intercettare i movimenti profondi che spingono le onde di superficie della cronaca di tutti i giorni. Attenzione, non è una questione di format, perché lo “spirito dell’approfondimento” può e deve vivere anche dentro la notizia di un telegiornale o nell’articolo di un quotidiano!

Il secondo insegnamento di Zavoli è che la denuncia non esaurisce l’inchiesta, anzi, se volete né è solo l’epifenomeno, il punto di partenza. Anche qui assistiamo sempre di più a un appiattimento del lavoro di inchiesta sulla cronaca delle malefatte del “cattivo” di turno. Quello di Zavoli, invece, come scrive bene Stefano Balassone su Repubblica ricordando nel giorno della sua morte la cifra principale del lavoro narrativo del grande maestro, “ è stato un giornalismo non di scoop, ma di profondità”, proprio l’opposto, continua Balassone, del giornalismo di oggi, dove prevale “l’informare bulimico, scisso dal capire”.

Infine, Zavoli ci ha insegnato la sacralità dell’intervista, dell’incontro con l’altro che nasce nel gioco delle domande e delle risposte, di cui era uno splendido interprete anche Enzo Biagi, un altro grande del giornalismo italiano: intervistare per un’ora una persona per poi montare gli unici trenta secondi che servono al prosieguo del racconto non è inchiesta, ma è piegare il racconto dei protagonisti della realtà a un copione predefinito che non ammette eccezioni e significa rinunciare a capire in profondità la dimensione umana che muove il mondo, anche quando davanti hai il “più cattivo dei cattivi”.

Le donne e gli uomini sono complessi, la realtà è complessa, il nostro lavoro è complesso, ridurre tutto questo ai “minimi termini” toglie al racconto della realtà spessore, intensità e commozione. E oggi che la globalizzazione ha letteralmente frantumato i confini nazionali come spazio della comprensione di quello che ci succede, non ce lo possiamo proprio più permettere.

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