Narra Ovidio ne Le Metamorfosi che Licaone figlio di Pelasgo, sovrano dell’Arcadia, si meritò a cagione della sua empietà la trasformazione in un “feroce lupo”.

A punirlo fu Zeus, inorridito dai sacrifici umani che il monarca della montuosa regione del Peloponneso pare celebrasse nel proprio regno, costringendo i cuochi reali a trasformare i corpi dei prescelti in vere e proprie prelibatezze per le tavole dei pranzi imperiali. Informato dell’arrivo del signore dell’Olimpo alla sua mensa sotto le celate spoglie di un mendicante, Licaone gli fece servire in pasto il proprio nipote, Arcas, suscitando le ire del re degli dei. Il poeta romano, con toni da Grand Guignol ante litteram, così descrive la trasformazione dell’uomo: «Atterrito fugge e raggiunta la campagna silenziosa / lancia ululati, tentando di parlare. La rabbia / gli sale al volto dal profondo e assetato come sempre di sangue / si rivolge contro le greggi e tuttora gode del sangue. / Le vesti si trasformano in pelo, le braccia in zampe: / ed è lupo, ma della forma antica serba tracce. / La canizie è la stessa, uguale la furia del volto, / uguale il lampo degli occhi e l’espressione feroce».

A fronte di tal lupigna maledizione, che rischiò di ridurre in rovina una delle più floride periferie dell’antica Grecia, Peucezio, uno dei 22 figli del sovrano e come tutta la sua discendenza bollato dall’istesso anatema, si spinse in cerca di nuove terre da colonizzare approdando nell’Italia meridionale, in Puglia, laddove leggenda vuole abbia fondato da prima la città di Bari per poi espandersi nella murgia circostante.

Se una simile, spiccata impronta mannara connota le origini mitologiche del capoluogo apulo, certo non è da meno il resto della regione, da sempre prolifico ricettacolo di ballate e cunti riguardanti la figura del lupomine (o lupinaru, ma pure, a seconda dell’area dialettale, lupu sulàru), creatura e totem ancora oggi assai presente nell’immaginario collettivo dei popoli iapigi (Lecce si nomava addirittura Lupiae in latino, letteralmente “città dei lupi”, e infatti il lupo compare nel suo stemma).

Un archetipo diffuso 

Si tratti quindi dei resoconti medievali per cui chi nasceva nella notte del 25 dicembre poteva ammalarsi di licantropia per aver cercato di offuscare con la propria nascita quella del Redentore, oppure delle cronache ottocentesche secondo le quali nelle campagne della Valle d’Itria una contadina muta comunicava coi branchi di lupi che a quei tempi assediavano la zona, od ancora della piccola costruzione del XVII secolo in agro di Bitonto chiamata “Torre del Lupomino” in cui tuttora strani avvistamenti ululanti si registrano nelle notti di plenilunio, o infine delle scene di terrore documentate a San Cesario di Lecce dove «grida strazianti di individui acciuffati e feriti dalla belva feroce» emergono da un articolo pubblicato il 15 settembre 1946 sulla Provincia di Lecce: ebbene ciascuna di queste fonti testimonia che l’archetipo del mostro selvatico pronto all’agguato è radicato da secoli un po’ ovunque nel Tacco d’Italia, e che la sua declinazione mannara (l’omu ‘mbistialùtu) continua a rimpolpare, in maniera creativa ancorché simbolica, storia e folklore di quest’angolo di Mezzogiorno.

Ecco perché quando, poco meno d’un ventennio fa, rovistando su una bancarella dell’usato mi capitò sottomano un testo di Elia Berthet dal titolo La Bestia del Gévedaun, tradotto nel 1858 dall’editore Gallizzi, un piccolo clic parve irrimediabilmente attivarsi nella mia mente, un clic cui però, all’epoca narratore ancora troppo in erba, non seppi dare ascolto.

Il libro in questione era un feuilleton dedicato al caso del sanguinario animale che fra il 1764 e il 1767 causò decine di vittime nelle campagne del Gévaudan, una regione della Francia centro-meridionale, e, pur scritto nella consueta lingua ridondante dei romanzi d’appendice, disseminava interessanti suggestioni orfiche all’interno d’un racconto zeppo di ululati nella notte e fanciulle da salvare.

Al cinema

La stessa vicenda aveva ispirato anche Il patto dei lupi (Le Pacte des loups, 2001) di Christophe Gans, un polpettone stiloso con cui la cinematografia francese provò a sfidare i blockbuster americani e che, lungi dall’essere un capolavoro, brillava per la contaminazione tra i generi (arti marziali, esoterismo, nobiltà in costume e duelli a colpi di spingarde, il tutto sugellato da una Monica Bellucci al top della forma) ma soprattutto per quella suggestiva atmosfera odorosa di crinoline e polvere da sparo che emanavano anche le pagine di Berthet.

Un malia che, oltre a derivare dall’indubbia eco del fatto specifico (non si contano le pellicole, i romanzi e persino i fumetti dedicati agli eventi di Gévaudan), era frutto della rielaborazione dell’identico tropo narrativo dal quale in fondo scaturiscono le mille storie di lupi della mia terra: quello cioè della pericolosa fiera appostata tra le fratte boscose ai margini della civiltà: una minaccia dai contorni indefiniti, qualcosa che scava nel profondo del nostro animo rivelando debolezze, paure e viltà.

Canovaccio basilare, quindi, eppure efficacissimo. Ovunque, nei secoli, ha generato narrazioni coinvolgenti: avvistamenti più o meno misteriosi di «barabau» nutrono infatti il repertorio dei racconti tradizionali sin dall’antichità – e a ridosso del celebre episodio francese essi si moltiplicarono colorando le cronache di buona parte d’Europa (in Italia destò qualche risonanza il caso di Cusago, tra Milano e Novara, ove per tutto il 1792 imperversò un gigantesco lupo cui la vulgata accreditava origini sataniche) – così che il cliché, di fatto un upgrade della primigenia paura dell’ignoto che accompagna l’uomo dalla notte dei tempi, è giunto all’oggi contaminando altri media: e così non stupisce trovarne tracce in opere di culto come il film Predator (John McTiernan, 1990), dove uno Schwarzenegger supersoldato si trova alle prese con un alieno nella giungla sudamericana che alla fine altro non è che una Gévadaun in salsa esotica, oppure nell’intera sequela di prodotti d’intrattenimento incentrati sugli animali killer (Lo squalo, seppur d’impianto melvilliano, in fondo è una variante subacquea della Bestia).

L’horror al sud

Di tutto ciò quel giorno tra le muffe della bancarella il mio sesto senso aveva confusamente captato la forza, ma solo qualche anno dipoi, vidimato agli occhi dei lettori il mio flirt con la letteratura di genere (Uomini e cani, 2007), la sensazione che alla narrazione del sud mancasse un racconto in chiave orrorifica si fece certezza. Sentivo maturi i tempi per una rifusione di quel costrutto elementare per il quale un essere raccapricciante s’invera, facendosi metafora di un territorio (o di un momento, di un quid) ed era insomma ora di assecondare l’intuizione. Ma non possedevo ancora la struttura – e l’esperienza – per affrontare un romanzo siffatto. Feci dei tentativi: scalette, scheletri di plot, ma la storia non decollava. Mi mancava la lungimiranza. E, soprattutto, la geografia.

Sei romanzi più tardi e con la costruzione di una vera e propria “contea” meridiana personale alle spalle, la storia si è magicamente concretizzata nel mio romanzo In principio era la bestia per Feltrinelli: una serie di delitti atroci, le voci di una Bestia che assedia una provincia remota del sud, un drappello di soldati inviato da Napoli, la rivoluzione partenopea sullo sfondo.  

Il periodo, oltre alla possibilità di raccontare un’epoca della terra in cui vivo assai poco frequentata dalla letteratura, mi offriva anche la possibilità di scandagliare costumi e usanze di grande fascinazione estetica e narrativa. Il consolidamento delle regole civili da una parte ma anche la legge fai-da-te del più forte, la violenza e le ingiustizie di classe e censo che paiono il riflesso (talvolta l’origine) di tante storpiature attuali. E poi sottotraccia un odore, un respiro “western” anarchico (i cavalli, i cappelloni, gli archibugi) che in fondo non si discosta molto dal resto della mia produzione. E quindi eccola, la Bestia. Orrenda, ripugnante. Sublime e indomita. Come il mio sud.


In principio era la bestia (Feltrinelli 2023, pp. 208, euro 17) è l’ultimo romanzo di Omar Di Monopoli

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