Chi li conosceva bene, in fondo se lo aspettava che Lea Vergine e Enzo Mari sarebbero fuggiti insieme da questo mondo terreno, perché era già successo che la separazione forzata avesse rischiato di ucciderli.

Accadde qualche anno fa quando lei era in ospedale per un serio problema al cuore e lui, rimasto solo a vagare nel vuoto appartamento, si era maldestramente arrampicato come un bambino su una scala per potare il glicine del terrazzo ed era caduto con serie conseguenze.

«Non lo si può lasciare solo», aveva maternamente detto lei quando la incontrai convalescente per parlare di una sua mostra al Mart di Rovereto dedicata al gruppo di Bloomsbury e dintorni dove, con geniale scrittura visiva, aveva messo in scena di tutto: dalla foto al dipinto, dall’opera all’oggetto, dal mobilio al manoscritto ma soprattutto uno stile di vita e conoscenza che andava dalla letteratura alle dissennate unioni di quelli eccentrici letterati e artisti «per i quali il sesso era cosa seria mentre, oggi se ne parla tanto, ma seriamente se ne fa molto poco. Almeno rispetto a questi veri libertini. Ma, che vuoi anche per quello è necessaria la cultura...».

Così si chiacchierava: lei con un calice di vino bianco, io con un bicchier d’acqua. «Davvero niente vino? Sarà che io l’acqua la uso solo per motivi igienici». È divertente, sarcastica, Lea Vergine con la sua voce leggermente arrochita, le sue sigarette senza filtro che fuma una dopo l’altra nonostante il cuore malsano, padrona di casa perfetta, esempio di eleganza inconsueta e ironica. Una di quelle donne che le altre donne studiano tra ammirazione e invidia per dettagli o colori che solo lei sa abbinare, o accessori a volte old fashioned che lei sa far diventare iconici.

Dunque Enzo Mari non si poteva lasciare solo e Lea lo sapeva e lo accudiva. Lo invitava ad abbottonare il cappotto uscendo da una mostra nel freddo dell’inverno, a scacciare briciole dal gilet di lana, a non indugiare in pensieri apocalittici durante pranzi conviviali «Enzo, per favore, regala ai nostri ospiti anche una luce in fondo al tunnel!» (una volta a cena a Roma).

Una casa intensa

In quella intensa casa di Milano, ex convento in via di Sant’Agnese, luogo pieno di cose, libri, foto, opere, progetti, oggetti, regali di amici artisti, architetti, Enzo Mari e Lea Vergine erano le pagine viventi della storia dell’arte e del design del secondo Novecento.

Lui così alto, gotico, con un volto che sembrava scolpito nella pietra; lei così minuta, veloce, prensile con un perenne lampo negli occhi. Complementari nel fisico, nel lavoro e nel pensiero.

Non era esattamente un rapporto d’amore, il loro. Era quel che lei definiva “un’ossessione amorosa”: «Una cosa diversa dall’amore. È proprio una dipendenza ossessiva. Non puoi stare senza una persona, al di là di ogni logica e ragionevolezza. Compresi gli inevitabili scontri e litigi», chiarì al mondo intero in occasione dell’uscita della sua autobiografia L’arte non è faccenda di persone perbene, Rizzoli.

Un’ossessione nata per caso nel 1966 quando lei cercava un grafico per una sua rivista e non voleva un grafico qualunque. Fu Argan ad indicarle Enzo Mari. «È l'uomo che fa per lei», le disse. Come sempre il grande storico aveva visto giusto. Dunque è per seguire Mari che Lea, nata a Napoli e radicata a Roma, lasciò le Grandi Bellezze e si trasferì a Milano, «La città che piace ai meridionali che credono di essere già arrivati in Svizzera», mi disse un giorno.

A quei tempi Mari aveva già passato il suo personale Rubicone. Non era più un designer, era già un filosofo o meglio uno scienziato che scavava nelle radici del progetto per individuarne e rivoluzionarne l’essenza.

«Che l’Enzo Mari tra tutti quelli che fanno questo buffo, ambiguo, incerto e scivoloso mestiere che oggi si chiama design, sia uno che insegue con più disperazione e accanimento il sogno di sottrarlo (questo mestiere) al suo peccato originale, di riscattarlo dalla corruzione di metterlo in qualche modo a disposizione della storia malinconica della gente che cammina per le strade piuttosto che a disposizione delle presunzioni stizzose delle aristocrazie al potere, questo si sa....», scrisse Ettore Sottsass nel 1974, ovvero negli stessi anni in cui Mari in nome di un design condiviso, democratico e socialista spediva per posta i suoi manuali di Autoprogettazione a chiunque lo richiedesse e volesse costruirsi da solo un letto, una sedia, un tavolo, per trasformare il mondo grazie a artigiani militanti, carpentieri rivoluzionari, operose cellule di un futuro migliore.

Tenere alta l’asticella

Non arrivò mai questo “futuro migliore”, anzi accadde il contrario. Resta il fatto che mentre l’utopico Enzo interpretava i fermenti degli anni Settanta scardinando i luoghi comuni del progettare&produrre; la combattiva Lea individuava nella creatività femminile una leva per ribaltare la secolare misoginia del sistema arte.

Nel 1980 la mostra che si inaugura a palazzo Reale sotto il titolo L’altra metà dell’avanguardia è l’approdo di un lungo processo di ricerca attraverso il quale Lea Vergine individua nel corpo e nell’esperienza femminili le radici di un nuovo linguaggio dell’arte, che lei vuole strappare dalla marginalità: «Quando mi sono posta il problema di fare una mostra di donne, l’unico criterio da tener presente era quello della qualità. Qualunque altra discriminazione sarebbe stata infamante per le artiste stesse», disse poi a Ester Cohen nel libro intervista Schegge.

Era l’arma comune a entrambi, mai cedere, tenere alta l’asticella della qualità, nel lavoro di lui come in quello di lei. Qualità che va difesa ad ogni costo, anche al prezzo di nasconderla. Ed ecco l’ultimo gesto di Enzo Mari: donare al Comune di Milano il suo archivio di opere, disegni e prototipi con la clausola che, dopo la mostra attualmente in corso alla Triennale, ne venisse negata la vista e l’accesso per almeno quarant’anni.

«Perché con la convinzione di un bambino un po’ ottimista, ipotizzo che solo fra quarant’anni una nuova generazione non degradata come quella odierna potrà farne un uso consapevole. Ho grande speranza che ci sia, nel futuro prossimo, una generazione di giovani che reagiscano e che riprendano in mano il significato profondo delle cose», dixit. E con questo viatico ci ha salutato insieme a Lea, e insieme a Nanda Vigo, Germano Celant, Vittorio Gregotti...tutti scomparsi in poco tempo, in tempi difficili e nel buio di un malanno che ci porta via quel che resta del Novecento.

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