Nel suo nuovo romanzo Maurizio De Giovanni lascia il noir e dà voce a un Catullo disperato e lucidissimo, vicino agli amori frustrati dei nostri adolescenti
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
Perché uno che è l’autore dei libri della serie che ha appena fatto il botto su Netflix («Sara: la donna nell’ombra», in pochi giorni e quasi senza promozione è diventata la più vista in Italia e la terza nel mondo), uno che veleggia sui due milioni di libri venduti; che nel 2024 ha viaggiato intorno alle 100mila copie con due titoli; uno che ha inventato Il commissario Ricciardi, Mina Settembre e I bastardi di Pizzofalcone; perché, dicebamus, uno che le case editrici si contendono a un certo punto si ingarella con Catullo?
Glielo chiediamo, Catullo è una sua «rilettura periodica», dice, ma per il resto non ci vuole dare soddisfazione. «Sono contento per loro», all’indirizzo della produzione Palomar e degli autori della serie di Sara, «ma io scrivo romanzi».
Che scriva romanzi, Maurizio De Giovanni, è certo. È persino un understatement. È l’autore italiano più prolifico. Però scrive solo noir, ad eccezione di «L’equazione del cuore», 2022, che non era un poliziesco ma comunque era un’indagine su una morte misteriosa.
E invece questo catulliano «L’antico amore», per Mondadori (237 pagine, 19,50 euro) spiazza, è un romanzo e basta, persino un romanzo d’amore, anche eccessivamente, di amore notturno, sbandato, da taverna; anzi di tre amori in tre tempi diversi – e «di versi» – che ovviamente a un certo punto, nel finale, si intrecciano. Ma non è l’ingranaggio narrativo che gli chiediamo.
È dell’idea di far rivivere Catullo ai tempi del colera, raccontare l’autore latino fra i più tradotti al mondo, per come si racconta lui, un innamorato che ama e poi odia. Come capita i nostri adolescenti, meno talentuosi ma non meno tormentati.
Anche su questo De Giovanni prova a minimizzare, a presentarsi come un artigiano che ascolta storie, e le scrive. Questa, spiega, «ce l’avevo da 16 anni e più. Ma non ho mai avuto il coraggio di scriverla, perché era diversa dalle mie e non mi sembrava corretto verso i lettori: loro da me si aspettavano un noir». Ma a un certo punto, benedetto l’editore, gli chiede una storia. Così sboccia questa, che non è un noir e arpeggia con registri diversi: il triller, il diario, ovviamente il noir. «Ovviamente il mio modo di raccontare è quello, spello i personaggi strato per strato», fino al colpo di scena, «posso fare a meno di un morto ammazzato ma non di un colpo di scena», ammette.
Delle tre storie che si intrecciano (quella di un enigmatico anziano si svolge con i tempi al passato, quella della badante Oxana al presente) a intrappolare è quella scritta in prima persona. Marco, giovane docente universitario, ha un ménage familiare mortificante, una moglie ricca che lo disprezza e gli vomita addosso le sue frustrazioni, ma soprattutto è incapace, così lui si racconta, forse non senza qualche ragione, di trasmettere ai suoi studenti la passione per i frammenti di un discorso amoroso di un poeta di cui si sa veramente poco. E su cui lui svolge ricerche maniacali. È fatale che a un certo punto si imbatta in una corrispondenza di maniaci sensi.
L’espressione «amore e odio» oggi è un luogo comune, uno stereotipo, anche politicamente a rischio (l’odio non è mai amore, eccetera). Ma l’archetipo è lì, nel primo secolo avanti Cristo. E generazioni di insegnanti di letteratura latina, anche i meno empatici (come Marco) finiscono per dover inciampare nella traduzione di quell’excrucior del Carme 85 (recitiamo a memoria, è breve: Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior): da quella crepuscolare del Pascoli, «ben so tutta la pena che n’ho», a quella angosciata di Quasimodo, «e mi tormento», alla brillantemente letterale di Ceronetti, «qui crocifisso», a quella di quel burlone di Benni «mme sient’ nu straccio». Dimmi che traduzione fai e ti dirò che prof sei. A tuo rischio e pericolo.
De Giovanni racconta il suo Catullo, «uno dei più grandi poeti della storia dell'umanità, ha delle intuizioni incredibili. Un ragazzo – perché era un ragazzo, è morto a trent’anni, e negli ultimi due anni è sparito, non ha scritto più - che nel 60 avanti Cristo distingue fra il voler bene e l'amare, e tutte le sottili differenze che noi pensiamo appartengano ai tempi successivi, e lui invece le coglie e le vive», e ne viene crocefisso, appunto. «È uno che scrive insulti, invettive», che distilla «tutta la gamma dei sentimenti che prova. Ti sembra di conoscerlo personalmente».
Ecco il punto: lo conosciamo, anzi lo riconosciamo. Il Catullo di De Giovanni è disperato e disperante come uno dei nostri adolescenti, tormentati via social da amori bugiardi, l’umore inchiodato a terra da una bella stronza, forse è “un* ragazz* liber*” che non vuole accolli. Quella di Catullo si chiama Lesbia e qui oggi si potrebbe aprire un mondo.
Il Catullo di De Giovanni è il libro dell’estate dei ripetenti, accorcia all’improvviso le distanze con la letteratura classica: leggi in italiano, ma sono citazioni dal latino, non le riconosci?, non le devi tradurre. E noi che ci abbiamo provato con «Il mondo antico in 20 stratagemmi», con «Andare per i luoghi di Ulisse», persino con «Come insultavano gli antichi romani». Questo funziona: «Lo stanno usando molti professori», racconta De Giovanni, «ed è una cosa che mi fa tenerezza e piacere, perché i ragazzi non leggono, figuriamoci la poesia. E nella poesia, figuriamoci i poeti latini. Mi è piaciuto rendere Catullo uno di loro. Ama come un ragazzo, parla a sé stesso come un ragazzo».
Nel frattempo di De Giovanni è uscito un altro noir di Sara, «ll pappagallo muto». Ma il libro di chi quest’estate ha un debito di latino è «L’antico amore». E un debito con il latino ce l’hanno un po’ tutti, non solo gli studenti indolenti del classico.
Una domanda in extremis. Negli ultimi tempi della sua vita Catullo sparisce dai radar degli studiosi perché smette di scrivere. Ed è fatale che qui è all’autore che dobbiamo chiedere se Catullo c’est lui, cioè se poeta che va dalla dissolvenza al nero è lo specchio del panico di uno scrittore che perde la sua vena amorosa dunque la sua poesia. La risposta è severa: «No. Catullo non scrive più, ma non perché ha perso la vena: non vuole più che lei sappia niente di lui. È venuta meno l'interlocutrice dei suoi carmi. Io invece credo che il mondo sia pieno di storie. Rimane senza niente da dire chi scrive di sé stesso. Ma se scrivi le storie degli altri, come faccio io, quelle non finiscono, devi solo avere l'attitudine all'ascolto, e se ce l'hai, non la perdi».
Davvero si può sostenere che quando si scrive non si scrive di sé stessi? «Attenzione. Che in una storia vada a finire molto di te è inevitabile, giusto e bello. Altro è che tu prendi te stesso, lo metti sul tavolo e dici “ora scrivo di questo”. È autofiction, consuetudine disgustosa dell’attuale letteratura italiana. È un esercizio tollerabile per un libro, se hai qualcosa da dire di importante di te.
Ma consumato questo, o sei Hemingway, e hai fatto la pesca d'altura il Messico e la guerra civile in Spagna, o non lo sei, e che racconti? Passi un libro, due. Il secondo in genere è meglio scritto del primo ma è peggio nei contenuti. Il terzo è illeggibile».
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