Lella, lasciami partire da una foto di mesi fa. Era una madre in fuga dall’Afghanistan lungo la rotta che arriva in Turchia. Una bufera li ha sorpresi e per proteggere i figli avrebbe usato le sue calze di lana. Se ne è andata così, assiderata nella neve. Di fronte a questo pensi che il dolore “visto” o raccontato, come il teatro è in grado di fare, abbia ancora la forza per orientare le coscienze? Da intellettuale credi che la parola può arrivare dove la politica non è più in grado di spingersi?

Se non credessi che la parola, il racconto, possa ancora avere una funzione, se non salvifica, almeno (in)formativa, forse smetterei di fare questo mestiere. Tra i romanzi che ho amato di più negli ultimi vent’anni c’è Molto forte, incredibilmente vicino, che proprio raccontando una storia riesce a mettere insieme l’11 settembre, il bombardamento di Dresda e l’atomica su Hiroshima, e compone un affresco dell’orrore contemporaneo facendo capire che non esistono vittime che “pareggiano il conto” di altre vittime, ma che tutte insieme compongono una montagna sterminata di dolore, insensatezza, sconfitta. L’ultimo capitolo, in cui il ragazzino protagonista – Oskar, che ha perso il padre l’11 settembre – riavvolge al contrario il ricordo del giorno più brutto, finisce con quattro parole struggenti e cruciali: “E saremmo stati salvi”. Io cerco di non dimenticare mai che se ognuno di noi si facesse carico almeno per la sua parte di memoria, il mondo non sarebbe perfetto, ma di sicuro meno sbagliato.

Ricordi l’altra immagine che scosse il mondo, era una creatura di tre anni nata a Kobane e riversa su una spiaggia turca dopo un tentativo di traversata che era la sola speranza di salvezza. Allora Angela Merkel aprì le porte a un milione di profughi siriani, ma non è bastata neppure quell’immagine a cambiare rotta se pensiamo agli accordi con la Guardia costiera libica per riportare in quei lager corpi stremati.

L’immagine di Alan Kurdi dovrebbe essere stampata nella memoria di tutti, ma sicuramente non lo è. Le tragedie, i lutti, le ingiustizie così palesi che ti portano a distogliere lo sguardo per impotenza; i fili spinati, i soldati che respingono col calcio del fucile esseri umani che solo per accidentali smagliature della storia non sono loro connazionali, gli inutili muri della vergogna; le persone che muoiono di guerra, fame, sfinimento, malattie che noialtri non consideriamo neppure più tali; quelle che muoiono in mare, quello che chiamiamo “nostro” e che è diventato – ha ragione papa Francesco – un’immensa fossa comune: tutto questo è troppo. Non ce la possiamo fare. Dobbiamo pur vivere, no? Siamo rimasti ai Rokes, “Ma che colpa abbiamo noi”.

Eppure la cultura dovrebbe assolvere a un compito che non è di pedagogia, ma di aiuto a illuminare scene che un grumo di interessi tende a oscurare. In fondo nella storia qualcosa di simile è accaduto.

Vedi, nel 2016, insieme a Marco Baliani, ho scritto e portato in scena uno spettacolo che si chiamava Human, volevamo raccontare le migrazioni, partendo nientemeno che da Ero e Leandro (amanti costretti alla clandestinità perché nati sulle sponde opposte di quello che allora si chiamava Stretto dei Dardanelli e oggi si chiama Bosforo) per arrivare al presente. Io avrei voluto intitolarlo Canto del nostro smarrimento, mi interessava provare a parlare non tanto di “loro”, ma di “noi” rispetto a “loro”, e così ho scritto una sorta di cantata (rubandola dichiaratamente da “E come potevamo noi cantare”) che chiudeva lo spettacolo e finiva così: “Di fronte a loro / non abbiamo più epica, né voce. / Di fronte al loro scandaloso, indicibile dolore / di fronte a tutto questo morire / così grande e paziente / come potremmo noi mai più cantare?”.

Immagino che non fosse una dichiarazione di resa, piuttosto il prendere atto che in un “mondo guasto” (rubo la formula a Tony Judt) dove i conflitti sono all’origine di tragedie umanitarie non basta una semina di buoni sentimenti, servono coerenze che la politica non è in grado di offrire.

Sì, credo che parte del problema, almeno per quanto riguarda la questione di quelli che definiamo migranti (e fatta salva la pietà, che esiste e i buoni sentimenti), stia proprio nella narrazione, se vuoi nell’epica. Più o meno consapevolmente negli anni in cui le storie di coloro che hanno perso casa famiglia dignità, e spesso la vita, hanno monopolizzato la narrazione del presente, noi ci siamo trovati, appunto, senza voce, senza un’epica nostra. E che cosa avremmo potuto mai pretendere di raccontare, di grazia? Come avremmo osato parlare dei nostri dolori, dei nostri lutti, del nostro smarrimento di fronte a loro? Così abbiamo covato – in silenzio, magari vergognandocene anche – una sorta di umanissima, indicibile insofferenza.

E adesso che da due anni a questa parte un’epica nostra, o almeno anche nostra, l’abbiamo nostro malgrado ritrovata, adesso che anche da noi si sono contate le bare e raccontate con un fil di voce tragedie, sofferenze e perdite inimmaginabili fino a un istante prima (eravamo felici, e non lo sapevamo), adesso possiamo finalmente smettere di occuparci di “loro” senza sentirci in colpa. Può accadere così che nessuna immagine di bambini o madri travolte da eventi atroci trovi più diritto di cittadinanza nella nostra coscienza e memoria. La conclusione è che a maggior ragione chi ha la responsabilità e il privilegio di raccontare, soprattutto ora dovrebbe continuare a farlo.

Lo spettacolo che riprendi ora su cento donne che hanno condizionato la storia risponde a questo bisogno?

“Se non posso ballare non è la mia rivoluzione” si apre con questi versi folgoranti di Grace Paley: “È responsabilità del poeta essere donna / tenere d’occhio il mondo / e gridare come Cassandra. / Ma per essere ascoltata, questa volta”.

Marie Curie, Tina Anselmi o Olympe De Gouges e Pina Bausch, ma anche Franca Valeri e Monica Vitti sino a Frida Khalo e Ilaria Alpi. Una mia curiosità, nello spettacolo c’è Rosa Parks e quel suo autobus in Alabama? Anche se poi la domanda è un’altra: che effetto ti fa vedere che a guidare movimenti sul clima, i diritti civili, la democrazia, siano delle giovanissime, da Greta Thunberg a Olga Misik a Mosca o Vanessa Nakate che riscatta la sua terra ugandese? Esiste un legame tra queste leadership e il femminismo?

Sarò lapidaria: sì, Rosa Parks c’è, subito dopo Josephine Baker e prima di Simone Weil. E sì sì e ancora sì, le leader di oggi (e speriamo di domani) sono una meravigliosa e autonoma declinazione del femminismo. Anche se magari non lo sanno o addirittura lo negano. È giusto così.

Ricordi l’assalto a Capitol Hill? Al netto del tizio vestito da sciamano, a guidare la rivolta erano (cito un bel libro di Giorgia Serughetti) maschi, bianchi, operai, commercianti, disoccupati…una rappresentanza dell’America che guarda la Fox, ama Donald Trump, giudica le minoranze un problema di ordine pubblico. Mi fermo su quel “maschi” perché credo abbia un peso: se, come dice Joe Biden, la democrazia è più fragile, pensi che possa venire dalle donne la reazione contro autoritarismi che finirebbero col colpire le loro conquiste, dalla libertà di scelta al diritto al lavoro?

Anche qui provo a risponderti partendo da una cosa che ho scritto nel 2009 per uno spettacolo intitolato Ragazze (mi pareva urgente che si ricominciasse a parlare di donne). Pure in quel caso ho commesso un furto dichiarato (nientepopodimeno che l’incipit dell’Orlando furioso) componendo una sorta di invettiva poetica che riprendeva “Le donne i cavalier l’arme gli amori le audaci imprese io canto” e procedeva a ritroso, quindi cominciava con le “audaci imprese”. Dicevo, “Perché è sicuramente audace impresa affermare che non esiste una sola questione femminile che non riguardi l’intera umanità, l’intera terra / Che la questione femminile è LA questione / Che sul possesso e il controllo delle donne si gioca il futuro di tutti / l’infinita guerra di questi uomini vuoti / sempre a cercare altrove la ragione di un verbo, un senso, una misura / Audace impresa è pretendere di più, è aggiungere “più uno” alla contabilità dell’infinito / Audace impresa è rinunciare ai figli come ai sogni / e poi portarne il lutto per tutta la vita / ma non farne parola con nessuno…..”.

Va letto anche come appello a non delegare il tema alle sole donne?

Sì e ancora oggi non mi viene da dirlo diversamente perché sono sempre più convinta che si debba partire da lì, dall’equivoco, alimentato più o meno dolosamente, che le cosiddette “questioni femminili” riguardino esclusivamente le donne, quasi si trattasse di faccende corporative. Che si debba ancora instancabilmente ribadire che ogni volta che si mortifica il talento, la competenza, il genio, la creatività di una donna non si fa un dispetto alla categoria, ma un torto a tutta la società. Dovrebbe essere un concetto piuttosto semplice e anche decisamente lapalissiano, ma evidentemente non è così. E a noi tocca continuare a trovare la voce, l’energia, la pazienza di spiegarlo. Sarebbe bello che in quel “noi” fossero coinvolti anche degli uomini. Soprattutto sarebbe necessario.

Sì, penso di capirlo. In un modo particolare tu e Gabriele Vacis lo fate dire a Gemma Donati, la moglie di Dante, nel testo costruito sulle donne della Commedia (Intelletto d’amore. Dante e le donne). Lei, Gemma, ironizza sul “genio” (un uomo non avrebbe mai potuto scrivere versi così profondi) e poi la cadenza romagnola di Francesca, il riscatto di Taide, per chiudere con Beatrice. Ricorreva il 700° della morte, ma è stata solo quella molla che ti ha spinta a “demolire” parte del mito o pensi che da lì ci sia arrivata una lettura del potere uomo-donna che ci siamo portati appresso per secoli?

Sai, in realtà il nostro intento non è mai stato quello di demolire alcunché, piuttosto di proporre (in un anno in cui il rischio che le celebrazioni dantesche comportassero un eccesso di retorica era piuttosto elevato) un altro punto di vista, un altro sguardo, senza nulla togliere alla bellezza assoluta delle parole del Sommo. Abbiamo fatto quello che ci è consentito dal mestiere del teatro: giocare (sarà mica un caso se in un sacco di lingue si usa lo stesso verbo per dire “giocare” e “recitare” : to play, jouer…) E l’abbiamo fatto con la complicità di queste quattro “ragazze senza pari” a cui abbiamo (arbitrariamente ma non inverosimilmente) attribuito una voce, un accento, un ruolo, un punto di vista. Ma senza mai forzare un’interpretazione “femminista”, ché proprio non è cosa, e sarebbe stato vagamente sacrilego, oltre che vistosamente improprio. La cosa più bella è che il pubblico ha sempre capito e apprezzato il gioco, e si è divertito, proprio in senso etimologico: si è lasciato trasportare altrove. Che è precisamente quello che il teatro dovrebbe, e vorrebbe, riuscire a fare.

Sono venuto a vederti al Teatro Vittoria, nel cuore di Testaccio. Mi ha colpito la prevalenza di donne e l’applauso lunghissimo che ti hanno (abbiamo) riservato alla fine. Tu hai percorso il sentiero della satira, del monologo comico e in effetti anche in questo spettacolo ci sono battute spiazzanti, ma è più potente lo spazio di tre o quattro minuti in un contenitore satirico della tv o un teatro di parola che consente tempi e pause e una grazia completamente diversi? Diresti che la prima dimensione “diverte senza obbligo di pensare” mentre la seconda “fa pensare anche senza l’obbligo di divertire”? O metterla così è solo il vecchio vizio aristocratico della sinistra?

Mah, io non credo più che tanto alla contrapposizione tra televisione e teatro: sono mezzi diversi e hai ragione, tre o quattro minuti comportano un lavoro e un senso totalmente differenti dal tempo largo e ricco che il teatro si può permettere. Quello di cui non sono del tutto sicura è l’attendibilità del calcolo. Voglio dire, se gli ascolti televisivi vengono determinati in base alle scelte di gruppi di persone definiti, virtuali, perché non considerare che anche gli spettatori che entrano in un teatro possano rappresentarne moltissimi altri? Cinquecento o mille spettatori a sera, moltiplicati per il numero di teatri che ogni sera e nonostante tutto li accolgono, non dovrebbero suggerire un’idea anche numericamente diversa? E poi chi lo dice che chi va a teatro non guardi mai la televisione, e viceversa? Quanto alle maggiori presenze femminili, magari ai miei spettacoli sono un filo più cospicue, ma secondo i dati rilevati dai vari stabili, oltre il 70 per cento del pubblico che va a teatro è comunque costituito da donne (e credo che più o meno la stessa percentuale si applichi a chi legge libri, frequenta musei e va al cinema…).

Anni fa hai lavorato a un documentario sul soggetto di Beppe Cremagnani e Enrico Deaglio (Quando c’era Silvio. Storia del periodo berlusconiano). Che sensazione ti ha dato la sua candidatura al Quirinale? E come hai vissuto la campagna (spesso venata di ipocrisie maschili) su una donna al Colle?

L’idea che B. potesse diventare presidente mi ha angosciato per qualche notte (mi sembrava uno di quegli scenari distopici della fantascienza classica, di cui in gioventù sono stata appassionata lettrice e perfino inesperta traduttrice). Pericolo scongiurato, respiro di sollievo, retrogusto comunque amarognolo. Quanto alla sceneggiata sulla “donna al Quirinale” (generica e innominata, ma d’altra parte quando i nomi sono stati fatti è stato uno sfracello totale), mi è sembrata – so di dire una banalità – una campagna vergognosa, ipocrita, strumentale e in mala fede. E lo dimostra il linguaggio usato, quel riempirsi continuamente e vistosamente la bocca della locuzione “la prima presidente donna”: pleonasma. Se dici “la prima presidente” non c’è alcun bisogno di aggiungere “donna”: il femminile è già esplicitato dall’articolo e dall’aggettivo. Se hai bisogno di una sottolineatura enfatica, è perché in realtà non ci credi neanche per un istante.  Comunque la mia candidata ideale sarebbe stata Luciana Castellina.

Da un anno e mezzo hai assunto la direzione artistica di un teatro storico di Milano, il Carcano. Da lì sono passate le eccellenze della cultura, prosa, danza, lirica. Cosa vuol dire “dirigere” un teatro? E farlo nella città che ha visto nascere il primo teatro pubblico italiano ha un valore particolare?

La nuova direzione – che per fortuna condivido con due donne sapienti, Serena Sinigaglia e Mariangela Pitturru – in realtà è diventata operativa solo dal settembre scorso, quindi è presto per capire se stiamo facendo un buon lavoro. Di sicuro in questo momento, dopo due anni di chiusura e una serie infinita di disagi, problemi e interrogativi sul futuro, assumersi onori e oneri della gestione di un teatro assomiglia a una delle audaci imprese a cui alludevo prima. Però mi sembra giusto provarci, anche solo per cercare di restituire alla mia città un po’ di quello (tanto) che mi ha dato. 

Ma se ti chiedessi di scegliere un testo da far leggere a una ventenne per convincerla della necessità del palcoscenico? E se la domanda fosse su quale allestimento? (Posso confessarti che risponderei Vita di Galileo e Angels in America?).

Credo che un testo teatrale debba essere visto sulla scena, quindi forse suggerirei a lei (ma anche a lui), di capire prima che cosa potrebbe interessarle veramente, altrimenti il rischio di fraintendimento (se non di fallimento) sarebbe elevato. Ho sempre guardato con sospetto alle cosiddette “scolastiche”, tumultuosi matinée in cui intere classi vengono deportate in un teatro, la mattina (che è contronatura), spesso senza nessuna propedeutica e sicuramente molto più attratte dalla possibilità di chiacchierare/pomiciare/ridacchiare insieme a compagne e compagni. Comunque: lo Strehler di Galileo tutta la vita, ma anche il Ronconi di Lehman Brothers e per restare all’Elfo, oltre che Angels in America, The history boys. E Sorelle Macaluso di Emma Dante.

In una Piccola Posta Adriano Sofri oltre ad augurare a te e Dacia Maraini di divenire la prima presidente della Repubblica, rifletteva attorno alla polemica sul “dominio” di statue maschili nel Prato della Valle o nei busti risorgimentali romani del Gianicolo. Al fondo l’attenzione, però, era rivolta a uno squilibrio che va oltre i busti in marmo o i ritratti dei rettori di università e si chiudeva con due note. Una era l’invito a visitatrici e visitatori, scolaresche e gruppi in pensione… “Guardate bene i monumenti, contateli, girategli attorno, e poi rispondete alla domanda: che cosa notate di strano? Di stranissimo?”. E aggiungeva la domanda “che ormai rifaccio automaticamente: qual è la quota percentuale di donne nel totale delle persone detenute?”. Ti basta la nuova “didascalia” suggerita? Me la dici la statua che metteresti tu?

Sono pregiudizialmente sempre d’accordo con Adriano, e anche in questo caso sì, mi basta. Se proprio devo aggiungerne una (ma sarebbero tante…), dato il milieu veneto e accademico, andrei su Lucrezia Corner, prima donna laureata al mondo (e cinquant’anni dopo è arrivata la seconda, Laura Bassi, la “filosofessa di Bologna”): un gran bel primato per l’Italia, no? Da andarne fieri. E invece non ne parla mai nessuno, men che meno a scuola. Chissà come mai.

Non te la prendere, ma scoprire che hai dato voce a Marta nel cartoon di Lupo Alberto a me ha aperto il cuore. Perché ho amato quel lupo e allora la domanda è tremenda ma te la faccio lo stesso, cosa è la comicità?

Ho adorato doppiare Marta, e sono felice di ritrovarti fratello in questa predilezione. Non sono in grado di dare una definizione di comicità, almeno non univoca. Ma per quanto mi riguarda credo sia sostanzialmente la capacità di sorprendere. È qualcosa che non ti aspettavi, che ti stupisce, che ti fa per un attimo sgranare gli occhi – hai presente i bambini quando scoprono qualcosa di nuovo? – e poi ridere. È un regalo. E a proposito di regali, penso apprezzerai questa straordinaria citazione di Romain Gary: “L’ironia è una dichiarazione di dignità. È l’affermazione della superiorità dell’essere umano su quello che gli capita”.

Bellissima, fa pendant con un passo di papa Francesco quando spiega che “Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo”. Vabbè dai, non mi capiterà più di farti una intervista come questa, allora me la dici la battuta che vorresti una volta recitare a una platea che ti attende lì, di sotto?

We are such stuff / As dreams are made on / and our little life / is rounded with a sleep” (“Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e la nostra breve vita è circondata da un sonno”). Mi sa che prima o poi lo porterò in scena veramente, Prospero.

Ci sarò!

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