A. Vorrei conoscere il suo parere, ma a me sembra che durante questa pandemia la scienza non stia affatto facendo una bella figura. I vari esperti si sono comportati e si stanno ancora comportando come degli inesperti, ogni volta pronti a ribadire la propria interpretazione, a mettere in discussione l’interpretazione degli altri, fin troppo disponibili a mettersi in scena soprattutto per poterla occupare. Certo, non so se lo ha notato, il loro eloquio è sempre pacato, si esprimono con calma e quasi sempre sorridendo, non urlano come i politici all’interno dell’arena, ma come quest’ultimi non perdono occasione per dire che non si è fatto quello che si doveva fare, che sarebbe stato meglio comportarsi in un altro modo, che i dati scientifici alla base delle decisioni politiche in verità non sono quelli corretti, in altre parole che la colpa è sempre dell’altro. Noi, uomini comuni, che ci aspettavamo dalla scienza, almeno da essa (dato che ci siamo lasciati convincere che la religione, la filosofia, la letteratura e più in generale le humanities sono prive di qualsiasi valore veritativo e hanno a che fare essenzialmente solo con il tempo libero), una parola ferma e sicura, ci troviamo così nuovamente in alto mare, storditi da una chiacchiera che non ci fa comprendere nulla, ma questa volta senza neanche il conforto che le “illusioni” più sopra ricordate erano comunque in grado di garantirci.

B. Comprendo le sue perplessità. A ben pensarci, questo corrompersi della parola in chiacchiera era del tutto prevedibile: non è affatto facile confezionare ogni giorno una informazione giornalistica di dodici/quindici ore su uno stesso argomento (si pensi alle famigerate “maratone televisive”) senza ricorrere alle sempre disponibili risorse degli affetti e dei sentimenti, e soprattutto senza utilizzare le solite fonti, quelle più comode e facili da raggiungere. Ad esempio, se bisogna parlare per dodici/quindi ore dell’epidemia allora conviene servirsi di tutto ciò che si ha a disposizione: l’esperto, il professore, l’amico cantante, la collega presentatrice, il calciatore, la ricercatrice (meglio se di un’università straniera), il sacerdote di periferia (meglio se degradata), l’anziano (meglio se solo e abbandonato, l’ideale sarebbe in una Rsa contaminata), il verbosissimo meteorologo, ecc. Tutti esprimono un parere, il più delle volte in mancanza di un pensiero. Ciò che dispiace, e in questo lei ha ragione, è che in questo bar siano entrati medici insigni, uomini di scienza ed esperti studiosi; e quando si entra in una bar è difficile resistere al fascino della sostenibilissima e appagante leggerezza della chiacchiera.

Ma detto questo, mi lasci richiamare la sua attenzione su alcune distinzioni in assenza delle quali la sua riflessione rischia di apparire come un banale, e proprio per questo pericoloso, attacco alla scienza. Innanzitutto la scienza non è riconducibile agli scienziati; quest’ultimi sono degli uomini e come tali sono soggetti a quelle debolezze che noi tutti conosciamo fin troppo bene. L’occasione è ghiotta: tutti ti cercano, tutti pendono dalle tue labbra, sei il solo autorizzato a parlare, e più precisamente sei il solo autorizzato ad affermare, a utilizzare la parola per affermare «questo è così» e «quello è cosà». Molti altri, dicevo, in questa situazione parlano, ma essi, come il sacerdote o l’infermiere o il filosofo, sono inviati a dare la loro “testimonianza” (personalmente io la vieterei per non rischiare di essere invasi da lacrime e buoni sentimenti) o a esprimere la loro opinione, mentre l’uomo di scienza è chiamato a “dire la verità”. In altre parole, la vanità degli scienziati non deve oscurare la verità attorno alla quale la scienza si affatica, alimentata da dubbi, incertezze, strane ipotesi, passi indietro ed errori.

In secondo luogo, la scienza, quella che sorride meno e sopratutto parla meno dei molti esperti scientifici invitati quotidianamente nei diversi talk show, non è riconducibile all’“immagine mediatica” ch’essa si trova oggi ad assumere. A me sembra del tutto evidente che nel sentire comune il termine “scienza” sia sempre più venuto a coincidere con il termine “verità”; per molti di noi, per fortuna non per tutti, l’unica verità credibile è quella scientifica, è la verità intersoggettiva, misurabile, riproducibile, fondata sull’esperimento. Solo la verità scientifica sarebbe in grado di offrici qualcosa di certo, sicuro, stabile. Noi tutti, ipernutriti di questa concezione della verità ridotta a essere una sorta di sinonimo di certezza/sicurezza, restiamo dunque perplessi di fronte all’attuale guerra dei dati che ogni volta vengono utilizzati per dire qualcosa di diverso: ci avevano promesso certezza/sicurezza e invece ci troviamo nella più scientifica delle incertezze.

Bisogna però riconoscere che la scienza autentica non è mai caduta in questa trappola, che è piuttosto quella in cui è felice di cadere la tecnica che tutto promette di riuscire, prima o poi, a misurare e di conseguenza a controllare; la vera scienza vuole innanzitutto conoscere e non controllare/rassicurare, e per questa ragione essa procede attraverso dubbi e incertezze, formulando strane ipotesi che quasi mai sono immediatamente verificabili, dando così spazio all’immaginazione e al sogno. In questo senso il termine “verità” allude a qualcosa di molto più ampio e denso della pura e semplice “certezza/sicurezza”; se mi permette un’immagine, si potrebbe forse dire che c’è una “verità/fecondità” molto più ampia della “verità/certezza-sicurezza”, come se la prima fosse la madre della seconda. In quel meraviglioso testo intitolato Il dottor Semmelweis Céline scrive: «Avevamo già presentito, in altre vite di medici, che queste sublime ascese verso le grandi verità precise provenivano quasi unicamente da un entusiasmo ben più poetico del rigore dei metodi sperimentali che si vuol dar loro come unica genesi. Il metodo sperimentale non è che una tecnica infinitamente preziosa, ma deprimente. Esso richiede dal ricercatore un sovrappiù di fervore per non crollare prima di raggiungere il suo scopo, su quello spoglio sentiero che bisogna percorrere accompagnati appunti del metodo. L’uomo è un essere sentimentale. Senza sentimento, niente grandi creazioni, e l’entusiasmo si esaurisce rapidamente nella maggior parte degli uomini, a mano a mano che si allontano dal loro sogno» (Adelphi 1975, p. 64).

A. Vedo che lei indugia nella poesia e fa della filosofia. Tutto questo è affascinante ma mi sembra abbia poco a che fare con la situazione in cui ci troviamo. Ribadisco la mia posizione: siamo stati invasi da dati che alla fine non riescono a dirci nulla di certo, che ognuno interpreta in modo diverso, e sto parlando non della gente comune che noi siamo, ma, per l’appunto, dei medici e degli esperti. Se non possiamo fidarci dei dati della scienza di chi possiamo fidarci?

B. Anch’io, se me lo permette, ribadisco la mia posizione. Lei dimostra di avere una fiducia quasi religiosa nei dati della scienza, e quando si ha una fiducia religiosa nei confronti di un realtà che non è religiosa alla fine non si può che restare delusi. La sua delusione nei confronti della scienza mi sembra quella di un innamorato non corrisposto: è bene che se ne faccia una ragione, anche perché forse la “sua ragazza” non gli ha mai promesso quello che lui, per l’appunto, sogna. In questo senso la fede religiosa è bene averla in Dio e non nella scienza. Quale è il suo errore, errore che quella che ho definito un po’ sbrigativamente la “vera scienza” non ha mai compiuto? Esso riguarda la concezione stessa di “dato statistico”: quest’ultimo non è mai un puro e semplice “dato” ma sempre e necessariamente un “risultato”, il frutto di un determinato processo di elaborazione; per leggere, comprendere e utilizzare un dato statistico è necessario conoscere il processo di elaborazione dello stesso. Inoltre un “dato” risponde sempre e solo a quella domanda che lo legge e interroga; non è dunque uno scandalo che gli stessi dati siano utilizzati per giungere a delle conclusioni diverse, talvolta addirittura opposte. I dati, dunque, vanno interpretati e mi sembra che lei è proprio l’interpretazione che vorrebbe togliere di mezzo: andando alla ricerca della certezza/sicurezza, avendo bisogno della certezza/sicurezza, lei sogna un mondo definitivamente “mondo”, cioè perfettamente pulito, ordinato, regolato, messo completamente in sicurezza, in altre parole privo di quelle interpretazioni il cui confronto è sempre complicato, incerto e soprattutto faticoso. Non vorrei in alcun modo offenderla, ma un simile sogno ha il volto del delirio e il mondo ch’esso immagina si rivelerà prima o poi un inferno.

A. E allora che cosa bisogna fare?

B. Perché così spesso si tende a mettere fine ad un confronto con la domanda «che cosa fare?». Vi è a questo livello una sorta di “arroganza del pratico” che in nome dei fatti tende a impedire ogni parola. Io non so «che cosa bisogna fare» ma non per questo voglio sottrarmi alla sua sfida. Tento così la seguente esile risposta: la scienza è una meraviglia, un vero dono di Dio, ma neppure essa, così promettente di entusiasmanti scoperte, è tutto, anche la scienza, come tutto, è un «non-tutto» (Lacan); di conseguenza non bisogna chiedere alla scienza ciò ch’essa non può dare, non si può chiedere alla scienza di essere ciò che essa non può essere; al tempo stesso è necessario che la scienza, e soprattutto coloro che si vantano di pensare scientificamente essendosi ormai emancipati dalla religione e dalla filosofia, non si faccia abbagliare dai suoi stessi risultati arrivando così a promettere, come fanno tutti gli idoli, ciò che in verità non potrà mai mantenere. Mi permetta di ricordare a conclusione di questo nostro dialogo le parole di Brecht: «Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre. E ogni nuova macchina sarà solo fonte di nuove sofferenze per l’uomo. E quando avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande che un giorno ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale... Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo» (Vita di Galileo, scena Quattordicesima).

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