Se il denaro scrivesse una poesia, la poesia direbbe «io vivo nella possibilità». Non c’è frase che il denaro troverebbe più adatta a sé di questo verso di Emily Dickinson. Borges disse che nulla è meno materiale dei soldi, perché qualsiasi moneta è un repertorio di futuri possibili. Il denaro è un ente astratto, è tempo futuro. «Può essere un pomeriggio in campagna, può essere musica di Brahms, può essere carte geografiche, può essere gioco di scacchi, può essere caffè».

Naturalmente c’è il lato oscuro. Il denaro è insaziabile, è presente e vivo. Inizia procurando caffè per tutti, una cosa innocente, poi passa a qualche sogno più ingombrante, infine vuole sostituirsi a ogni cosa, vuole essere la misura di tutto. Cosa può fare, del resto? Non ha nulla se non la capacità di offrirsi in cambio di altro.

Attaccare l’etichetta del prezzo è la sua missione. Il denaro si sente imparentato con i numeri e la matematica, perciò vuole nobilitarsi fornendo la misura esatta di ogni bene e situazione. In qualsiasi momento esiste una valutazione possibile della ricchezza e della povertà di ogni essere umano, possiamo mettere in ordine le persone dalla più ricca alla più povera, e questo sarebbe un esercizio noioso, se non fosse brutale e reale. Ha delle conseguenze nella disumanizzazione. La misurabilità è il lato oscuro del denaro come possibilità.

Nascono da qui grandi e piccoli deliri. Il denaro diventa promessa di identità: acquisterò, mi definirò, sarò perché avrò. Germogliano forme di disprezzo di sé e degli altri. L’identità, d’altro canto, è un concetto scivoloso, più oscuro del denaro. L’identità è sia unicità sia uguaglianza. Ho un’identità, sono io, sono questo e non altro. Oppure: essere identici, la perfetta uguaglianza fra due o più cose.

Scappiamo da questi problemi logici e ricorriamo a una frase semplice: “Il denaro non è tutto”. La frase ha un senso immediato, sebbene porti in fretta a certe derive come “la salute, invece, è tutto” (concetto feroce, lo sa bene chi è malato). Ma prendiamola per buona. Se il denaro non è tutto, siamo rassicurati?

Tempo fa sul Financial Times è apparso un articolo di Anatol Lieven sugli uomini di fiducia di Vladimir Putin, la sua cerchia ristretta: i siloviki, ovvero gli “uomini della forza”. Hanno una natura diversa dagli oligarchi. Gli oligarchi sono l’élite economica che conosciamo: aspirazioni internazionali, ville, barche. I siloviki vengono dal mondo militare, dai servizi segreti, e sono il vero potere. Sono ricchi, corrotti, ma la loro corruzione è speciale: è patriottica. E così il loro rapporto col denaro.

La ricchezza dei siloviki è funzionale: serve perché altrimenti sarebbero sminuiti dall’élite economica degli oligarchi, serve alla credibilità della loro posizione in un mondo in cui l’equivalenza fra soldi e potere è un dato di fatto. Il denaro dei siloviki garantisce dunque la stabilità della patria. Una situazione non ideale, però. Ha qualcosa di impuro.

I siloviki preferirebbero tornare a un mondo dove tutti posseggono poco e in egual misura? In cui esiste un tetto insuperabile e l’autorità politica ha valore assoluto, senza bisogno di confronti col denaro? Rinuncerebbero al lusso per un potere autentico, magari mantenendo alcuni vantaggi personali, ma niente di comparabile all’opulenza? Il denaro mette le persone in ordine dalla più ricca alla più povera, il tetto invece rende uguali ed eleva il despota e i suoi aiutanti al servizio del cuore della patria. Si tratta in entrambi i casi di idee di ordine.

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