Com’è difficile raccontare Milano. Una difficoltà che si acuisce in quei momenti storici in cui la retorica della città che non sta mai con le mani in mano s’incarna plasticamente in qualche trasformazione urbanistica, e diventa una colpa persino ridirne qualcosa. Coi cantieri e le relative buche saltano fuori allora anche nuovi slogan che promuovono il legame speciale della città con il progresso e le modalità d’uso per un corretto vivere contemporaneo (che è sinonimo di milanese).

Le cose non cambiano poi molto da epoca a epoca, che sia il momento di interrare qualcosa per fare strada, di ricostruire dalle macerie o di tirare in piedi grattacieli, al punto che ancora oggi per avere uno sguardo più ricco di sfumature sulla città viene bene leggere, per esempio, due scrittori degli anni Sessanta.

Autori ai margini

Due emarginati, anche se uno, Luciano Bianciardi, da tempo è stato rivalutato, almeno un po’, mentre l’altro, Umberto Simonetta, continua imperterrito a vivere nell’ombra delle sue mille incarnazioni (una colpa imperdonabile per una comunicazione efficace avere troppe sfaccettature): paroliere per Gaber (La ballata del Cerutti e Trani a gogo), direttore del teatro Gerolamo (suo il primo adattamento e regia de L’Adalgisa di Gadda), creatore di personaggi iconici (Giandomenico Fracchia di Paolo Villaggio), drammaturgo (È arrivata la rivoluzione e non ho niente da mettermi, Mi voleva Strehler), e autore tv (sua la prima sit-com italiana, I cinque del quinto piano).

Simonetta di tanto in tanto riaffiora imperterrito dalle acque sepolte dei navigli, come oggi che Baldini e Castoldi ha per la seconda volta, dopo gli anni Novanta, ripubblicato i suoi libri migliori, Tirar mattina e Lo sbarbato, per poi scomparire nuovamente nelle sentine della città: minore del Novecento, si definiva con una punta di sarcasmo, oppure peggio, scrittore milanese («La milanesità a volte è peggio della negritudine», ebbe a dire una volta).

Sia Simonetta sia Bianciardi hanno mollato la zampata migliore agli inizi dei Sessanta, in pieno Boom, La vita agra è del ’62, Tirar Mattina del ’63, per poi prendere strade diverse. La fuga dal successo nell’autodistruzione per Bianciardi, le mille trasformazioni per Simonetta. Accostarli potrebbe apparire un capriccio se non fosse per le opere e per i loro due io narranti, due tipi di anti-milanese che danno voce a quelle creature lunari di cui la città si nutre vampirescamente per rinnovare il mito diurno della laboriosità.

Lo sfaticato Aldino 

Simonetta descrive l’Aldino, protagonista di Tirar mattina, come uno sfaticato, un narcisista, uno convinto di poter vivere senza lavorare. Capite che nella Milano che rinasce è una colpa clamorosa. Infatti, accetta un impiego su insistenza della famiglia della fidanzata: «Ooh! era ora finalmente a trentatré anni suonati», dice la futura suocera, una donna rinsecchita dal dispiacere che gestisce una pasticceria in via Fiamma. L’Aldino cerca di darsi una regolata e diventare un bravo cittadino. Ma cova un inestinguibile fondo di rabbia contro Milano e le sue ambizioni talvolta eccessive: una città, come recita il risvolto di copertina de Le ballate dei Cerutti, «partita per essere Francoforte e dirottata per via verso Salonicco». E così si dà alla notte, la macchia che offre un riparo alle creature irregolari: tiratardi, prostitute, omosessuali.

Del resto, il titolo parla chiaro, si tratta di arrivare alla fine dell’ultima notte di libertà dell’Aldino prima del suo primo impiego, garagista in via Porpora, saltando da bar a balera, il solito giro, arrivato persino a noia, «però intanto l’idea che da domani non lo potrò più fare mi ha messo addosso uno spavento vuoto che non so neanch’io come spiegare con esattezza». Durante questa notte raccontata in presa diretta dalla sua Alfona, di quinta mano ma sempre Alfona perché uno come lui mai potrebbe andare in Cinquecento, fa i conti con la sua vita. Una notte, quindi, che racchiude in sé tutte le notti di quei 15 anni, dal ’45 al ’60, durante la quale anche Milano si disfa e si confonde, i cantieri della metropolitana del presente nelle case smembrate dalle bombe della guerra, gli amici di allora nei conoscenti di oggi. Una nottata condotta con uno stile sperimentale, senza capitoli, tutto flusso che fa un uso rocambolesco dei due punti: come se cadesse da un evento all’altro senza posa, trascinato da una corrente che non è nemmeno brutale, ma soltanto inesorabile.

Una questione aperta 

Anche l’alter ego di Bianciardi ha una questione aperta con Milano. Viene da fuori con una missione in testa, vendicare i minatori morti nella miniera di lignite di Montemassi, nel grossetano: 43 fagotti dentro una coperta militare che gli sfilano davanti agli occhi dalla piana ai funerali. Com’è noto l’obiettivo grandioso è di far saltare per aria il torracchione della Montecatini, edificio in cemento e vetro progettato da Giò Ponti in largo Donegani, oggi sede di Radio 105.

Ma prima di farlo saltare bisogna pure mangiare e quindi impelagarsi in un qualche lavoro, che nel caso di Bianciardi è lavoro culturale, dal quale viene immancabilmente licenziato per scarso rendimento: «E mi licenziarono, soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano anche quando non è indispensabile. Nel nostro mestiere invece occorre staccarli bene da terra, i piedi, e ribatterli sull’impiantito sonoramente, bisogna muoversi, scarpinare, scattare e fare polvere, una nube di polvere possibilmente, e poi nascondercisi dentro».

Anche lo stile che usa ha il passo lento che rompe lo schema a perdifiato della metropoli, tra invenzioni linguistiche, variazioni letterarie sul toscano, fraseggi consapevolmente ricalcati dagli amati autori tradotti, digressioni saggistiche sulla Braida del Guercio (Brera), sul sesso, sul miracolo economico che costringono il lettore a rimodulare l’incedere su un ritmo personale, alla propria maniera, come un glitch capace di rompere l’incanto della vita moderna. Uno stile diverso da quello di Simonetta che ha la capacità di stare sulla superficie delle cose che scivolano via, riproduce il sound del parlato, il gergo della Milano di strada, e dei figli della ricca borghesia in cerca di un po’ di sgaggia, capace di trasportare il lettore proprio in quella città, in quel momento storico lì.

In lotta con il mondo

In comune Bianciardi e Simonetta hanno l’angoscia di chi si sente braccato, di chi conduce una lotta impari con il mondo ma non per questo si arrende, un mood che tiene viva una scrittura sempre comica, irresistibile. Persino gli esiti dei due romanzi hanno un’amarezza che ha qualcosa di ironico: il protagonista de La vita agra si rinchiude con l’amata Anna nell’illusione della vita appartata, tra tv a rate, costipazione, sciroppetti al faggio e l’esplosione del torracchione sostituita da quella di un bengala nel cielo della periferia milanese; mentre l’Aldino vorrebbe che il mondo riconoscesse la sua eccezionalità e siccome non accade ecco che gli tocca di sgobbare. Perché lui non è buono nemmeno di fare lo zanza. Uno che non vuole entrare nei ranghi ma non sa neanche starne fuori. Oreste del Buono parlando di Tirar mattina, ma un discorso analogo lo si può fare anche per La vita agra, lo definì una sorta di parodia del mito dell’evasione e della ribellione alimentati da tanta parte della narrativa americana, citando come esempi coevi: Il giovane Holden di Salinger e Corri, coniglio di Updike (usciti in Italia nel 1961).

I nostri due restano comunque animati da una vitalità che non si esaurisce in nessuna formula codificata, che si scarica su tutto e trova nemici ovunque, come le pagine meravigliose che Bianciardi e Simonetta in tandem dedicano ai lavori perennemente in corso in città: «Per i rumori lavorativi c’è rispetto sommo, invece, e in quel dissennato scavare tutti vedono il segno del progresso» (Bianciardi); «Buche dappertutto che si aprono all’improvviso in largo e in lungo come all’epoca dei bombardamenti, fogne sembrano, scoperchiate per sadismo: via libera a tutte le bestiacce che saltano fuori ringraziando: un inchino e via!: topi, ratti grossi come bassotti, burdòk: tutti in libertà, godete anche voi! (…) e loro dritti continuano a scavare alé! con una frenesia da maniaci un’ansia di sbatter per aria tutto quanto per il gusto e l’orgoglio di rifarlo nuovo» (Simonetta).

Pare che dalle buche, insieme ai burdòk (scarafaggi), sia libero di uscire anche l’inconscio della città. I due autori hanno saputo raccontare l’altra faccia della radice identitaria di Milano, le creature oniriche che sono la controparte notturna, indomita e indolente, della città che non si ferma mai. Il sopra e il sotto, il cielo e il mondo ctonio. Per non parlare dei bar delle antille, dei trani a gogo, dei baristi che si grattano la testa un po’ unta prima di servirti un caffé, delle checche, delle lesbiche, dei terroncini, delle facce storte dalla rettitudine di chi prende il tram all’alba. Anche nelle dediche c’è qualcosa che accomuna il sentimento delle due scritture: uno, Bianciardi, dedica al nobile amico Carlo Ripa di Meana, che gli presta un abito blu alla presentazione de La vita agra al teatro Gerolamo; l’altro, Simonetta, a Renata e Vittorio Spinazzola, tra i pochi ad aver riconosciuto il suo talento fuori dal comune. Entrambi bisognosi di accoglienza e grati per quella ricevuta. Anche nelle pagine più caustiche si percepisce un legame con la città che non può essere rotto, se non con la vita. Una vera fortuna avere avuto chi ha urlato con tanta onestà, fuori dai cliché e dalle retoriche in voga, il suo amore sofferto per Milano, città troppo facilmente vittima dei propri appetiti o, più spesso, di quelli altrui. «Perché la vacca milanese, più la mungono, e meglio si sente», dice ne L’Adalgisa Gadda, un altro che la conosceva bene.

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