E dunque tutti felici, la vita riprende, i vaccini funzionano, siamo tornati alla “vita sociale”, del resto, lo dice anche Charles Darwin, senza stare insieme saremmo ancora a quattrozampe, siamo tornati a quel che siamo, evviva, con un po’ di spaesamento certo, quella punturina fastidiosa dovuta a una temporanea perdita di familiarità (come i risvegli notturni negli alberghi) o anche vera paura, che serpeggia nei polsi riarsi delle signore bene e dei timidoni di buona famiglia, ma che gioia ritrovare un po’ del noi che è nell’altro, non è vero? I rumori, le parole, magari concitate, magari ad alta voce, la vita vivaddio!

I ragazzi che finalmente tornano a divertirsi e si fanno sentire, eccome se si fanno sentire, si fanno proprio sentire ’sti ragazzi eh! I tavolini dei bar che mettono allegria, ma certo, che allegria!

Evviva, e però il parcheggio diventa un problema, qua prima era tutto parcheggio e adesso ci sono tavolini pieni di esseri umani a piedi, che fanno caciara e se la godono, ma sai cosa? In effetti quelli che escono la sera, non so, non saprei che dire, perché noi non usciamo la sera, noi, siamo persone per bene che lavorano, ecco alla fin fine, bisogna pur dirlo: si stava meglio quando si stava peggio! E diciamolo! Che ordine, che pulizia, che tranquillità questi lockdown, anzi di più: bisogna fare qualcosa, non se ne può più di questa vita che straborda, che fa il cazzo che le pare, come prima e più di prima, la mano questa vita chiassosa e imprevedibile e vivace, questa insopportabile gentaglia, feccia vien da dire, che alza il gomito, questi ragazzi scostumati, dopati di ormoni, che andrebbero messi fuorilegge, maledetti ormoni (che poi non dimentichiamoci la movida, è tutta colpa loro se ci sono stati tutti questi morti, la movida uccide molto più dei pipistrelli, lo hanno detto i giornali, lo hanno detto i politici, oramai lo dice anche la scenza occorre reagire, r-e-a-g-i-r-e, con forza se necessario, far sentire la nostra voce, ristabilire ordine e decoro. Basta casino! Basta vita! Fermi tutti!).

Due settimane

Più o meno due settimane, ecco quanto ci è voluto perché questo caotico rimuginare dell’inconscio collettivo trovasse espressione, e addirittura organizzazione, con tanto di programmi e obiettivi.

In particolar modo a Milano e ora addirittura anche nel mio quartiere, si assiste a una sorta di rivolta contro la vita (che è disordine, entropia, sporcizia) e per il decoro; contro la spontaneità e per l’ordine; come se questi mesi, anni, di clausura e ritiro forzato avessero risvegliato un memento mori che ci vorrebbe tutti silenziosi e ordinatamente in fila davanti al cimitero ad attendere, decorosamente, il nostro turno. Senza sporcare, ovviamente. Ma magari; probabile siano meno escatologici il movente, l’attitudine e il brodino culturale da cui nasce il borbottio rumoroso delle pance delle brave persone. Un paio di settimane, dicevo, non di più, erano passate dal primo momento di sollievo dall’inizio di questa epocale sospensione del nostro essere esseri sociali, che trovo affisso nell’atrio del palazzo (splendidamente délabré) nel quale vivo in zona Conca del Naviglio a Milano, trovo, appunto, un cartello di un sedicente e neo-formato comitato di quartiere che, senza mezzi termini, chiede di rinchiudere dietro robuste cancellate i giardini tra via Conca e via Arena. Ora! Subito! Non se ne può più! Basta movida!

C’erano tre firme, probabilmente quelle degli organizzatori. Detto parchetto pubblico è peraltro confinante con un giardino ben più nobile, quello già racchiuso da cancellate e che circonda l’arena romana dalla quale, insieme alla conca del naviglio, prende il nome questo spicchio di vecchia Milano tra porta Genova e porta Ticinese. Il piccolo parco civico dell’Arena è peraltro chiuso per lavori – sarà bellissimo una volta ultimato; verranno riportate alla luce altre sezioni della gigantesca arena, sarà creato un giardino di cipressi e chissà quali ferree regole per accedervi.

Tenere chiusi gli spazi per l’incapacità di gestirli è come non mettersi un vestito per paura di rovinarlo, lasciare la plastichina sulle sedie buone o non usare la macchina che ci siamo comprati per non usurare gli pneumatici. È la definitiva vittoria della mera esistenza delle cose che prevale sull’uso per il quale esse esistono, deviando la naturale relazione tra uomo e mondo.

E se vi sembrerà un punto di vista troppo antropocentrico guardatela da quest’altro: l’uguaglianza tra noi e le cose non esiste; è logicamente impossibile. O siamo noi al loro servizio o il contrario. Non ci sono zone grigie. E se così è, forse spetta a noi metterle a nostro servizio, nel senso più alto del termine, ovvero sviluppando al contempo la capacità di proteggerle da noi stessi, senza eccedere in estremismi (la bottiglia la porta via la nettezza urbana, magari meglio educare a non gettarla per terra che gridare al crimine contro l’umanità) ma non dovendoci escludere dalle cose per manifesta inferiorità rispetto a esse.

Ciò vale ancor di più per quelle cose che non sono cose, e che anzi hanno uno statuto ontologico dibattuto: gli spazi e i luoghi. Le menti più raffinate del pianeta discutono da decenni su temi come: il buco in mezzo alla ciambella esiste? Se vi avesse incuriosito il problema, e se le insopportabili urla dei ragazzi dovessero permettervelo, arriverei a consigliarvi di leggere lo splendido saggio del 2002 di Roberto Casati e Achille Varzi, Buchi e altre superficialità.

Ma divertissement a parte, diciamo che per quanto qui ci interessa, gli spazi tra le cose esistono e basta.

Possiamo decidere di limitarci a guardarli e non usarli, per preservarli dalla vita, dal decadimento che la vita comporta, soprattutto se attraversata dalla gioia, che, si sa, consuma, logora e porta al peccato? Possiamo decidere di non mangiare la ciambella per salvare il buco? Possiamo sì! Possiamo guardarli e preservarli per un futuro nel quale altri potranno solo guardare, in una spirale che, messa così, non potrà che rendere le nostre vite sempre più virtuali, spettatrici e segmentate da una molteplicità di divieti. Tocca precisare, per non esser frainteso, che si parla di eccesso di regolamentazione e non di “liberi tutti”, come direbbe un titolo di un quotidiano qualsiasi, e che ci riferiamo a un delizioso quanto ordinario giardinetto pubblico e non all’acropoli di Atene.

E, per esser più precisi, si parla, ancor più che di eccesso di regolamentazione, del tipico processo che, una volta acclarato che educare è una sfida troppo complicata da affrontare, allora vieta.

Non funziona nemmeno con i bambini, ma a questo siamo rimasti. Roba che fa tornare in mente l’età gloriosa del poliziotto di quartiere, la bomba elettorale berlusconiana, del tutto rispondente all’idea di dittatura del decoro, soprattutto nella sua evidente comicità.

“Quanto è fesso”

Le lamentele del comitato per l’ordine sono sostanzialmente due: una riguarda il decoro (lasciano sporco ‘sti ragazzi!) e l’altra il silenzio (fanno rumore ’sti ragazzi!).

Decoro e silenzio sono i valori da preservare. Facile pensare che quest’anno di silenzio, ordine e pulizia abbia stimolato quella parte di noi che non desidera altro che questo; che ha in spregio spontaneità e libertà altrui; che contempla beato il prato ben tosato e si guarda bene dal poggiarvi il proprio piede nudo. Tutti padroni distaccati dalla vita, direbbe Hegel; aggiungo, più superficialmente, che una riflessione sulla qualità del significato della parola decoro ci permette di capire qualcosa di più di chi la usa.

Il decoro è il “salvare le apparenze”; non ha nulla a che fare con la sostanza; è il tappeto sopra la sporcizia. E rivela la passione maligna del piccolo capitalista per l’esibizione sociale del suo status, fosse anche attraverso un giardino pubblico che, siccome è sotto casa sua, deve essere decoroso. La superficie delle cose è sottovalutata (non dai già citati Varzi e Casati); invece è proprio da lì che bisogna partire per capire chi siamo. Quella superficie è il terreno d’elezione del decoro, il genio maligno, idolo e simulacro del conservatore passatista, beato e pasciuto come i milanesissimi borghesi che pranzano ne La cognizione del dolore di Gadda, ambientato nel Maradagàl (uno stato immaginario che tanto somiglia alla Lombardia del Ventennio), e che in poche righe, semplicemente descrivendoli, li mette in ridicolo, una frase per tutte: «E a nessuno veniva di fatto pensare, sogguardando il vicino, “quanto è fesso”».

Zitti e buoni

Sul silenzio rispetto agli schiamazzi non c’è davvero molto da aggiungere. Chi può pensare di lamentarsi, o addirittura formalizzare il proprio fastidio in una comunicazione alle istituzioni competenti perché le ragazze e i ragazzi fanno casino, dopo più di un anno costretti a viver come topi, in semi-clandestinità? Non hanno fatto abbastanza sacrifici per noi adulti e anziani? Non è stato forse il loro il sacrificio più grande; loro, praticamente immuni dal virus e incredibilmente pronti a rispettare ogni regola che gli veniva imposta per salvaguardare il passato, consumando pezzetti di futuro? Del resto, spendere il futuro, ovvero ciò che non si possiede ancora, è un’altra malattia contemporanea che la pandemia ha reso ancora più visibile. Non c’era altro da fare, si dirà, ma l’assenza di dibattito sul rapporto tra vite salvate di ultraottantenni e danni psicologici da clausura digitale per gli adolescenti e i bambini non si è mai davvero tenuto. Ed è tempo che se ne parli.

La dittatura sanitaria paventata da tante voci, autorevoli o meno, durante il periodo più nero della pandemia, risuona diversamente ora. Continua a essere e rimarrà per sempre una solenne stronzata rispetto alla pandemia, ma può acquisire nuovo senso ora che siamo in via di normalizzazione.

Ciò tuttavia può avvenire solo spostando il baricentro del ragionamento: non c’è uno stato che ci impone regole liberticide. Siamo noi cittadini a volerle, ad aver trovato un luogo caldo e riposante nel sacrificio del corpo, sacrificio che è tema di larghissimo spettro e cruciale rilevanza se vogliamo capire chi siamo noi oggi. Non è, come sosteneva ad esempio Agamben nel suo pamphlet negazionista, un bisogno di sicurezza indotto dalla politica che vorrebbe ridurci alla “nuda vita”, ovvero, appunto, all’assenza di qualsiasi interazione e/o costruzione sociale collettiva e alla abbassamento dell’uomo a semplice essere-che-sopravvive, attraverso lo strumento della “dittatura sanitaria”. Ma se la premessa era ovviamente fuori fuoco (non c’è tutto questo pericolo, diceva lo sventato filosofo, rifiutando peraltro di confrontarsi con il sottoscritto che lo aveva invitato a dibattere le sue tesi per questo giornale) l’esito è adattabile all’oggi.

Ma è davvero un bisogno indotto o qualcosa di più? Siamo sempre dalle parti dell’irrisolvibile paralogia che vuole la politica come altro dal popolo che la vota. Noi siamo la politica, non c’è un sopra e un sotto – lo abbiamo visto bene nel nostro paese, quando il presidente della Repubblica ci ha salvati imponendo l’unico “sopra” che esiste davvero in democrazia, ovvero competenza ed efficacia. È uno stato di cose ormai introiettato e consustanziale alla società-mercato, che la pandemia, come altre ferite più o meno nascoste, ha svelato, togliendoci le bende – quelle sì, disinfettate – del quotidiano e mettendoci a nudo attraverso l’emergenza. La pandemia finirà nei libri di storia – speriamo – come una breve parentesi. Ciò che rimarrà e che ci porteremo dietro è un’idea, vacua e pericolosa, di una società decorosa e ordinata. Che pare resistere a tutto. Le parole d’ordine di ogni fascismo, a ogni latitudine. La dittatura del decoro, quella sì che esiste ed è ben viva. Lo è nella forma di un malessere psicologico di massa nato ben prima della pandemia e che affonda le sue radici anche nell’effetto collaterale del processo di emancipazione socio-economica, che ha portato con sé la vergogna per ciò che eravamo.

Ci siamo messi tutti la cravatta negli anni Sessanta, ci siamo dati un contegno da fessi, o almeno così avremmo voluto; non vogliamo più fare il lavoro manuale e ne abbiamo diritto, salvo poi lamentarci (per qualche decennio) della robotizzazione dei processi di produzione per finire poi per delegarlo agli immigrati, senza regole né decoro, perché a loro il principio non si applica. Loro no; loro non sono italiani anche se sono nati qui. Loro non sono noi. Possono condurre vite indecorose, importante è che il giardinetto sotto casa mia sia pulito e a posto, quel che accade oltre porta Ticinese non è affar mio.

Il classico Nimby (Not in my backyard, non nel mio cortile) che non è altro che l’innesco della ignobile peristalsi che ha portato al disgustoso localismo leghista e al susseguente rigurgito sovranista – un localismo 2.0 che risuona nelle stesse pance pasciute e fesse. L’avvicinamento progressivo e inesorabile del confine tra il “noi” e il “loro”, dell’idea del diverso, è un tratto distintivo del secolo scorso che ha debordato nel nostro, con un movimento che definirei idraulico, a cento anni dalla sua formalizzazione da parte delle dittature fasciste europee. Il diverso è sempre più simile a noi; basta sempre meno per essere considerati diversi e perciò fastidiosi; ciò che un tempo poteva essere incluso nel noi, anche attraverso la maleducazione o il volgare cazzeggio degli epiteti, va via via restringendosi. Così quantomeno mi è parso di capire quando politici e giornali ci hanno fracassato i timpani con la cazzata della “movida”: i ragazzi – figlie e figli – sono diventati un “loro” e non – almeno! – una proiezione futura di un qualche noi. E così ecco i manifesti contro di loro affissi negli androni. Si divertono e lasciano sporco, mandiamoli via. Vale per ogni diversità percepita ed è sempre fascismo.

Solo ciò che si può vedere

Questo atteggiamento che sto provando a mettere a fuoco è naturalmente anche legato a un altro tema ultradecennale: spostare più in là ciò che è ritenuto fastidioso e indecoroso, siano le prostitute, gli spacciatori o i campi rom. E tradisce in maniera netta, soprattutto se pensiamo al tema delle droghe, la difficoltà a capire che l’esistente non si elimina con un divieto, si prende atto che esiste e si costruisce l’alternativa. Non basta spostarlo più in là; non ha mai funzionato. Non ha salvato vite, né innalzato il livello del ridicolo decoro. Senso del decoro che avrebbe dovuto essere almeno minacciato dall’esperienza della pandemia: la disinfezione, come il virus, è invisibile, è sopra o dentro i nostri corpi, invisibili ed estremamente decorosi nel loro agire; ma se ci spostiamo in un terreno di gioco diverso ecco che preoccupa di più una bottiglia di birra su un prato potenzialmente sanissimo (ma oscenamente violato nel suo dover essere decoroso) che, ad esempio, gli esiti di qualche birra di troppo su un corpo troppo giovane. Sarebbe come pensare che una bottiglia di plastica in un mare cristallino sia più pericolosa dell’invisibile scarico tossico di una fabbrica dietro il promontorio. E allo stesso modo la bottiglia vuota accanto al cestino è più visibile dei Suv parcheggiati sopra i giardini, incongruamente abbarbicati come capre marocchine sulle salitelle in grosse pietre di porfido che reggono i giardini, leggermente rialzati. Contro le auto nessuna petizione, ovviamente. Perché le auto sono decorose, soprattutto se molto grosse e inquinanti.

Ciò che dico si basa su evidenze; non si pensi ch’io stia qui a pontificare, filosofo in poltrona. Mi sono sporcato le mani (in realtà no, era tutto molto pulito). Ho effettuato una ricognizione notturna e ho potuto constatare le seguenti gravi violazioni del decoro: gruppi di adolescenti su di giri che ridevano e parlavano. A VOCE ALTA! E c’era anche musica! Si sospetta addirittura il consumo di sostanze illegali, oltre che di birre, che ci portano alla seconda violazione: accanto ai cestini pieni c’erano effettivamente molte bottiglie abbandonate. E cartacce. E mozziconi. Insomma, dopo essersi divertiti non hanno ripulito, e questo è sbagliato, siamo d’accordo. Ma forse basterebbe usare una legge del codice civile che già esiste ed “elevare contravvenzioni”. Ah, se solo ci fosse un poliziotto di quartiere! O, dio mi perdoni, provare ad educare alla civiltà: si può buttare una bottiglia vuota anche barcollando. Ma se barcollare e cantare è indecoroso, e allora, che cazzo vuoi, la bottiglia te la lascio qua. Dagli torto!

Proseguendo nell’ispezione, poco più su, nei giardinetti più stretti e lunghi che aggraziano la via della Conca, fino ad arrivare a via De Amicis, ho trovato per terra degli occhialoni rosa di plastica, altro esempio dell’efferatezza di questi giovani criminali. Sono sceso il mattino seguente per fotografarli e non c’erano già più: tanto dura “lo schifo” in zona 1 a Milano: lo spazio di una notte, evidentemente un prezzo troppo caro da pagare per permettere a dei ragazzi innocenti – o forse addirittura sfigatelli – di farsi due selfie con gli occhialoni di carnevale.

Per onestà devo dire che in caso di laurea si odono spesso anche cori “goliardici” dei laureati della Bocconi che frequentano un bar nelle vicinanze, in verità un po’ sfigati anche quelli. Io cittadino già quarantovenne e quindi un filo stanco e sempre bisognoso di riposo, mi sarei tuttavia unito solo a una petizione per l’aggiornamento dei cori di laurea; sul resto non ho nulla da obiettare.

I ragazzi fanno casino. È, grazie a dio, un dato di fatto. Noi possiamo lamentarci tra di noi o col nostro sventurato partner del fatto che facciano casino. Impedirgli di fare casino – e con che mezzi, poi: una cancellata – figurarsi. Siamo davvero diventati così fascisti da non riuscire a sopportare un po’ di bisboccia adolescenziale?

Non me ne capacito e mi chiedo cosa avrei fatto io a 16 anni – da me vissuti praticamente al 90 per cento fuori casa – se ci fosse stata una pandemia. È probabile che sarei stato arrestato più di una volta. È anche per questo che sorrido quando vedo dei ragazzi che si divertono? Perché mi sono divertito? È sempre e solo psicologia, come diceva Kafka nella sua ultima lettera al padre o c’è dell’altro? Francamente non lo so. Ma non mi piace per niente.

Rientrando nel mio palazzo a fine ispezione ho tuttavia trovato un’anonima anima gemella, probabilmente più giovane di me, che sotto la petizione aveva scritto “fascisti”. E siccome la cosa è stata trovata indecorosa dai comitati per il decoro, la petizione è sparita.

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