Cosa sta accadendo in questi giorni? Stiamo assistendo a un inferno. L’Ucraina è in fiamme, i missili russi cadono sulla popolazione inerme e l’avanzata di truppe russe, più o meno dichiarate, sta mettendo in ginocchio un paese schiacciato dall’inconsistenza della diplomazia.

Ma è davvero un inferno? Che cosa ci spinge a identificare quelle scene e quei colori, fatti di ingredienti terribili, con l’inferno? Perché usare quella parola, quell’immagine, e ciò che essa evoca?

È da qui che vuole prendere avvio la riflessione sul vocabolario religioso che, in un modo o nell’altro, continua a popolare i nostri discorsi e, soprattutto, un immaginario che ha radici antichissime.

La Divina commedia

Ciò che Dante ha consegnato all’umanità si è certamente impresso in maniera indelebile nel sentimento collettivo, dai «sospiri, pianti e alti guai» all’«aere sanza stelle», l’area caliginosa in cui non si vedono le luci del cielo.

Ma c’è sicuramente molto di più. L’inferno è tutt’altro che un concetto scontato o definito e, anzi, è stato oggetto di numerose rielaborazioni. L’idea di un luogo in cui la giustizia di Dio si esercita per bilanciare e riequilibrare l’ingiustizia terrena è presente in molte religioni e certamente rivela come gli inferni ultraterreni _ di qualunque natura essi siano _ parlano alla radice con gli “inferni” terreni.

Questo è forse il primo elemento di cui tenere conto: l’idea di un luogo (o di un meccanismo) di punizione eterna, in molte culture, serve anzitutto a “riparare” le ingiustizie che si verificano sulla terra e, pertanto, non si può capire l’inferno ultraterreno se non guardando a quanto accade nella terrestrità di tutti i giorni.

Del resto, non è difficile comprendere come, di fronte all’ingiustizia, le civiltà si siano sforzate di formulare una risposta che, in qualche modo, consentisse di stabilire o ristabilire un ordine, di governare e di ripristinare un equilibrio.

Nel cristianesimo, la formazione del concetto di inferno è stata progressiva: la cultura ebraica dei tempi di Gesù non possedeva ben formata l’idea di un luogo ultraterreno di punizione contrapposto al luogo del premio eterno: la cultura cristiana crea presto l’immagine di un luogo “infero”, letteralmente “in basso”, destinato al patimento dei malvagi.

I suoi colori, odori, suoni e caratteristiche attingono al nuovo e all’antico Testamento: il fuoco eterno, pianto e stridore, dolore senza fine, spesso commisurato alle colpe commesse in vita. Le scritture offrono un repertorio straordinario, dallo stagno di fuoco al cumulo di tralci secchi, accatastati e arsi perché infruttuosi.

La pastorale della paura

Come hanno mostrato molti storici, questo inferno, proprio perché scaturisce dalla società e agisce sulla società, può essere un potente strumento per governare: è nel medioevo che nasce, per rafforzarsi dal Cinquecento in poi, la cosiddetta «pastorale della paura».

Schiere di predicatori, scrittori sacri, inquisitori e esponenti degli ordini religiosi ricordano insistentemente, con toni accesi, che per chi non osserva i precetti della chiesa vi sarà una punizione terribile ed eterna.

L’unico modo per scampare è uniformarsi alle indicazioni del clero che si trova così a parlare di un regno ultraterreno che è, allo stesso tempo, una realtà terrena: proprio perché situato dopo la vita mortale, l’inferno opera e incide efficacemente sulla vita di ogni giorno, sul modo in cui essa è vissuta, cambiata, diretta.

I giudizi universali

Testimonianza strepitosa e immaginifica di questo luogo, a cui guardare spesso, sono le migliaia di giudizi universali che prendono forma e colore sulle pareti delle chiese: pensare alla fine e al giudizio di Dio diviene una necessità ineludibile, una pratica quotidiana che determina i valori e i comportamenti.

Per essere credibile, e soprattutto colpire i sensi interiori, l’inferno deve essere vero, tangibile, minaccioso. Schiere di teologi e, non di rado, di astronomi e scienziati spiegano che si trova al centro della terra; che ha bocche e ingressi _ come del resto diceva anche Dante _; qualcuno pensa che siano i vulcani i luoghi che portano dritti al regno del male, dove sta un angelo caduto nella notte dei tempi, con i suoi aiutanti malvagi e torturatori.

Questo inferno è morto? Lo abbiamo davvero sepolto e ne abbiamo realmente decretato la fine? Molti pensatori hanno sostenuto che sempre più si sia assistito a una spiritualizzazione dell’inferno, che esso, cioè, sia entrato in noi, nei buchi oscuri della coscienza individuale, e si manifesti nelle tragedie dell’umanità o nei rigurgiti più o meno evidenti della psicanalisi.

Certamente continua ad affiorare nel nostro vocabolario e negli universi paralleli delle narrazioni, del cinema o delle serie televisive. Ma quello che _ oggi come in passato _ chiama in causa ogni inferno, interiore, ultramondano o terreno, è una domanda ancora più radicale: quella sul male e, più in profondità, sulla natura di Dio e la sua esistenza.

La natura del male

La bontà di Dio pare non conciliarsi, per molti, con la possibilità che un inferno esista; d’altro lato, la giustizia di Dio impone, nella mente di alcuni, che un luogo in cui riparare ai torti impuniti debba esserci.

Non sarà un caso che la teologia abbia tentato di costruire persino ponti tra sponde opposte: e se l’inferno esistesse – perché Dio è giusto –, ma fosse vuoto – perché Dio è misericordioso?

In questo strano gioco di polarità opposte, l’inferno continua tuttavia a operare: nel nostro linguaggio, nella nostra esperienza e, soprattutto, negli eventi a cui diamo questo nome.

Oggi la chiesa di Roma che, per secoli, ha costruito e spiegato le caratteristiche dell’inferno, afferma che questo luogo non è più qualcosa di fisico, ma uno stato: stato di separatezza da Dio e, pertanto, stato di angosciante desolazione.

E tuttavia la sua natura anfibia, tra punizione doverosa e luogo inaccettabile perché contrario alla bontà divina, resta parte del discorso pubblico, persino di un papa come Francesco. «Mafiosi, pentitevi per non finire all’inferno!», ha ricordato per esempio nel 2014. 

È la prova che la leva profonda, della paura e dell’angoscia che nasce dall’abbandono solitario, è un linguaggio ancora forte. Forse perché ragionare per inferni è, in fondo, calarsi negli abissi dell’animo umano.

© Riproduzione riservata