Siamo sicuri che la linearità della carriera sia garanzia di successo? Sono finiti i tempi in cui era stretta la relazione tra il percorso di studi e la professione, sempre la stessa tutta la vita, in cui conquistarsi, a piccoli passi, gli avanzamenti di posizione.

Era il concetto di realizzazione che avevano i nostri genitori, i nostri nonni: scuola, università, lavoro e poi via a scalare la piramide gerarchica, possibilmente nella sicurezza del posto fisso, un tracciato lineare appunto che dava una direzione e, forse, il conforto di un obiettivo reale piuttosto che da inventare.

Ammesso che ciò rappresentasse il successo e non l’illusione della felicità, ora comunque le cose non stanno più in questi termini. Oggi, l’80% dei laureati lavora in ambiti su cui l’iter formativo non ha una ricaduta diretta. C’è chi dice che i percorsi di carriera assomigliano sempre meno a delle scale da salire un gradino alla volta e sempre più a delle reti dove i nodi di collegamento rappresentano occasioni per cambi di direzione.

L'immagine della rete dà l'idea del potenziale di un'interconnessione dinamica tra settori diversi, ruoli complementari e competenze che si evolvono: una metafora che sottolinea la flessibilità, l'apprendimento continuo e l'apertura mentale verso nuovi percorsi. In questa visione, ogni esperienza può diventare un punto strategico per saltare dentro nuove opportunità, oltrepassando i limiti imposti da un sentiero predefinito.

Poliedrico è bello

Le carriere non lineari sono sempre più comuni nel mondo del lavoro moderno. E a pensarci bene è sempre stato così. Senza sprofondare nel trapassato remotissimo e scomodare la genialità di Leonardo da Vinci, artista, inventore, scienziato, ingegnere e anatomista, possiamo ricordare Steve Jobs, che frequentava solo i corsi universitari che gli interessavano e, appassionato di calligrafia, ha poi fondato l’Apple nel garage dei suoi genitori. O ancora Andrea Bocelli, prima avvocato poi tenore di fama mondiale. O Miuccia Prada, laureata in Scienze Politiche, impegnata nel PC (partito comunista) che ha poi preso in mano le redini dell’azienda di famiglia rivoluzionando il mondo della moda attraverso design innovativi, materiali inaspettati e affermandosi come una delle stiliste più famose al mondo. E nello sport?

Casi noti di campioni che si sono affermati in più sport in tempi differenti ci sono: Jim Thorpe dall’atletica al football, baseball e basket; Michael Jordan dal basket al golf o altri che hanno iniziato in una disciplina con successo per poi lasciarla e ottenerne di più in un’altra, come Sinner.

Questo passaggio tra ambiti diversi rappresenta però solo una delle due prospettive da cui guardare alla non linearità della carriera. La seconda consiste nel vedere l’affermazione come un percorso che non segue una progressione diretta e prevedibile ma che include cadute, momenti di pausa, rientri, riprese, cambi di direzione e successi intermittenti. Variazioni alla linearità che rappresentano un arricchimento piuttosto che battute d’arresto e che fanno di ogni esperienza, positiva o negativa, il contributo ad una carriera unica e ricca di significato.

Lo studio sull’Olanda

Una visione frequente ma che fatica ad affermarsi in ambito agonistico dove la specializzazione, sempre più precoce, iper e spietata, tende ad avere il sopravvento. Perciò la materia è diventata oggetto di ricerca. Pochi giorni fa è stato pubblicato un articolo scientifico che si intitola: "Il percorso tipico verso la vetta è atipico. Modelli di carriera all’interno dei sistemi di talenti del calcio maschile e femminile”. 

La ricerca ha analizzato i percorsi di carriera di circa 3000 giovani calciatori e calciatrici nei sistemi di gestione del talento nel calcio olandese, mettendo in discussione l'idea che il successo derivi da un iter lineare. Il dato più rilevante emerso, e motivo di profonda riflessione, riguarda proprio la conferma del fatto che le interruzioni di carriera sono risultate positivamente correlate al raggiungimento dell’alto livello.

La riflessione è arricchita da altri due dati che lo studio mette bene a fuoco. La percentuale di coloro che arrivano ad affermarsi nella massima categoria è di circa l'8 per cento dei giocatori e il 10 per cento delle giocatrici che hanno iniziato il percorso all’interno dei sistemi di gestione: percentuali positive in assoluto ma negative se si considera che scaturiscono da azioni mirate a creare un ambiente favorevole per lo sviluppo dei giovani atleti attraverso un enorme investimento di risorse e che disattendono le aspettative di molti.

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Per sistema di gestione del talento si intendono le “Accademie di calcio” (programmi di formazione gestiti dai club), i centri di sviluppo regionale (strutture territoriali che identificano e sostengono lo sviluppo dei talenti offrendo opportunità di allenamento avanzato), programmi di scouting (iniziative per individuare giovani promesse con osservazioni e valutazioni durante le partite), il supporto educativo e psicologico (servizi per garantire equilibrio tra sport e istruzione e per affrontare le pressioni psicologiche).

L’età di reclutamento

Il terzo dato interessante riguarda la debole relazione tra l'età di reclutamento e il raggiungimento dello status d’élite: entrare prima nel sistema di gestione del talento non è dunque un indicatore per il migliore sviluppo di capacità, abilità e dell’adattamento al livello di competizione elevato. Conclusioni che evidenziano, contrariamente a quanto comunemente si tende a pensare, che il decorso della carriera dei futuri calciatori non progredisce necessariamente in modo continuo dal reclutamento precoce ma tende piuttosto ad avere andamenti atipici, singolari, originali.

Tradotto in pratica significa sostenere percorsi fluidi e flessibili per garantire la possibilità di recuperare a chi ha uno sviluppo fisico tardivo oppure di rientrare a chi subisce o chiede uno stop. Ciò può avvenire ad esempio attraverso la creazione di squadre parallele, strategia adottata dalla Federcalcio belga con risultati significativi concedendo ai giocatori più tempo per maturare e mantenere la possibilità di raggiungere la serie maggiore. Un'altra opzione consisterebbe nel posticipare la selezione a maturazione avvenuta (ad esempio a 15, 16 anni) nella consapevolezza che il talento giovanile non è predittivo del successo, che molti giocatori emergono più tardi rispetto alla media e che la normalità sta più negli andamenti a zig-zag tra cambi di ruolo, pause e riprese, infortuni e recuperi piuttosto che nella linearità.

A livello teorico le conclusioni della ricerca sottolineano una volta ancora che, pur essendo imprescindibile la creazione di opportunità e di un ambiente favorevole, non esiste un unico percorso valido per tutti ma ci possono essere molteplici vie che conducono allo stesso risultato finale. Ed è forse questo il messaggio più importante dello studio olandese: non sono i talenti a dover rientrare nei binari dei sistemi di gestione ma sono questi a doversi aprire alle traiettorie irregolari. Un invito a superare modelli rigidi e prestabiliti per accogliere la complessità come il terreno fertile per il vero sviluppo. Come a dire che olismo e originalità devono tornare di moda.

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