Negli ultimi anni a passi discreti, ma significativi, sta entrando nel cortile della letteratura una nuova, quanto suggestiva, famiglia letteraria che, giocando con diversi e articolati codici espressivi, potrebbe dirsi della scrittura “guasta”. Una lingua “meticciata”, in effetti, offre la possibilità di rappresentare una qualsiasi cosa (un luogo, un tempo) che esiste realmente per mezzo di un’altra che non esiste affatto, eppure, per molti aspetti, corrispondente a quella reale. Spesso la lingua “ufficiale” dà l’idea di un mare senza onde, uniforme, convenzionale, che categorizza in maniera eccessivamente schematica e tende a omologare le diversità identitarie. La scrittura non può esimersi dal dar conto della marginalità, delle periferie, dei paesaggi esistenziali.

Al contrario flussi parlati “meticciati”, “bastardi” ricchi di gergalismi e dialettismi innalzano il tasso di credibilità e di realismo delle voci narranti. Verrebbe da dire “sia benedetto chi ha inventato il dialetto”: la bellezza di una lingua “guasta” e “sporca” spesso riesce a esprimere, meglio di una lingua “pulita”, sentimenti e sensazioni, affresca a più vivi colori la scena, esaltando, a volte fino all’esasperazione, gli aspetti emotivi della realtà. Una “ribellione” del linguaggio da cui deriva una dinamica che travolge. Quindi non una quiete della parola, ma meraviglia, mare in subbuglio, onde di un’altra logica linguistica in grado persino di dire l’indicibile. Un neologismo, una turba sintattica, calcolate sgrammaticature, sintassi fantasiose, possono produrre situazioni, storie di luce altra fino ad aprire piccole, quanto necessarie, crepe nel rigido perimetro linguistico in cui l’abitudine tende a rinchiuderci.

Il linguaggio orale

Probabilmente il “guasto” della parola è fenomeno più facilmente osservabile nel discorso orale, eppure esistono regioni esplorabili solo attraverso modelli legati a flussi verbali, a parlate, a voci, prima ancora che a lineari documentazioni e corretti apparati linguistici. In tal caso un originale impasto di dialetto e italiano letterario produce una lingua altra, che diventa la vera protagonista del libro. Come raccontare altrimenti gli scenari esistenziali, sociali, quindi politici in senso largo, di quella parte di umanità sconfitta dai poteri dominanti se non con il “parlato” di mondi scomparsi, fagocitati dall’omologante globalizzazione, se non con il recupero di parole perdute, con a lingua ca me port appresso (Graziano Gala). Nell’esperienza poetica tale fenomeno risulta ancora più evidente: si pensi alla ricchezza della poesia “dialettale” in quanto ri-scoperta di dialetti nativi, di idiomi estranei alle tradizioni letterarie più consolidate. Oltre che voce privilegiata della poesia, oggi, più che in passato, il dialetto entra anche nella prosa, con l’inserimento di voci dialettali tanto nella narrazione che nei dialoghi, come segno di un’adesione letteraria alla realtà, espressione di credibilità dei personaggi, senza, per questo voler esaltare la cosiddetta “piccola patria” né per sofisticato sperimentalismo.

L’uso del “parlato” assume sempre più valenza letteraria, manifesta la scelta consapevole di perseguire strade nuove nella ri-scrittura del reale. Del resto la scrittura non assolve solo la funzione di un meccanico rispecchiamento della realtà, ma su questa sempre agisce con una logica della trasformazione e dell’immaginario. Una scelta linguistica “ibrida”, a mo’ di esempio, la si rintraccia, in recenti stagioni, in Omar Di Monopoli (Nella perfida terra di Dio, Adelphi), Domenico Dara (Appunti di meccanica celeste, Nutrimenti), Remo Rapino (Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, minimum fax), Valerio Valentini (Però l’estate non è tutto, La nave di Teseo), Graziano Gala (Sangue di Giuda, minimum fax). Questi autori, ma anche altri, condividono un tratto comune: il modello linguistico, fatto di incroci e contaminazioni, rende la lingua protagonista principale dell’opera, al di là degli eventi e dei personaggi. Tale scelta permette di raccontare e raccontarsi da un’ottica “marginale” eppure storicamente fondata.

Il parlato s’impone con una forza che dà più forza a chi scrive, quasi che lo scrittore agisse sotto dettatura e si facesse trascrittore dei paesaggi umani e sociali. Superfluo, a questo punto, chiedersi la differenza tra lingua e dialetto. Per il semplice fatto che un uso “dialettale” della lingua va considerato lingua di pari dignità. Del resto nella realtà quotidiana l’italiano standard non viene quasi mai parlato. Gli italiani, quando parlano la loro lingua, utilizzano infinite varietà: non cambia solo l’accento, cambiano anche alcune parole e alcune regole grammaticali, ma non tanto da impedire la piena comprensione del testo (inter-comprensibilità). Certo, gli autori di cui sopra appartengono all’area centro meridionale, ma ciò vale anche per altre aeree geografiche.

Luoghi e personaggi

In sintesi, sempre per semplificare: il “diario” di Liborio perderebbe ogni credibilità se fosse scritto in una lingua totalmente “pulita”, così i dialoghi in aquilano di Valentini rendono più forti le immagini, i sentimenti, le sensazioni, le stesse vite, legate al terremoto del 2009. E Giuda-Giudariè perderebbe l’anima, e con lui tutta Merulana, se si esprimesse in italiano perfetto. Lo stesso dicasi per l’efficacia espressiva dell’impasto inventato da Omar Di Monopoli e così per la capacità di Domenico Dara di portare il lettore oltre le comuni apparenze del luogo narrato, proprio grazie al suo particolare codice espressivo.

Così i luoghi, come i personaggi, assumono una valenza universale proprio grazie alle scelte lessicali (di qui la presenza dei glossari) che rendono traducibili storie e personaggi in altri luoghi, sotto altri cieli. Tali scelte rivalutano l’epica popolare della lingua realmente parlata, il che permette, all’umano, di ri-conquistarsi, di tornare ad appartenersi, di ri-disegnare l’ordine del mondo. Il particolare assume, in tal modo, una simbolica valenza universale. Questo perché, per molte ragioni, il rapporto di coerenza espressiva non va visto tra eventi e modo di raccontare quanto, piuttosto, tra linguaggio e psicologia del personaggio, siano questi Giuda, Liborio, le figure di Girifalco, quelle vaganti nella perfida terra di Dio, le voci disperate tra le macerie e le ferite de L’Aquila.

Allora sia benedetto colui che l’ha inventato il dialetto in quanto possibilità di un uso largo e creativo della lingua, di ogni lingua, quasi che questa si rivelasse, come dice il Wenders de Il cielo sopra Berlino, una intrigante possibilità. Ciascuno di noi chiude in sé il suo angelo: cerchiamo di ritrovare l’innocenza dimenticata. Detto per inciso, forse non è casuale che quello che è stato ritenuto dalla critica il miglior testo italiano degli anni ’80 non sia in italiano: Créuza de mä (1984) di Fabrizio De André, cantato in ligure. È così. Scrivere non muta il corso delle cose, ma intanto è bene farlo in ogni modo immaginabile. Spesso siamo impotenti, è vero ma le parole valgono pure qualcosa (Pasolini). Allora che le parole, “guaste” e “folli” che siano, si facciano ponti per unire le città degli uomini. Che nascano, crescano, accompagnino i nostri sguardi, i nostri cammini, le “parlate” della rabbia, della commozione, della compassione, le più varie per dirli e condividerli quei cammini. A questo servono le parole dei libri: a pensare il mondo e, non ultimo, a raccontarlo con linguaggi che hanno la loro residenza nella ragione e nel cuore.

 

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