Quando sento qualcuno che si lamenta del fatto che oggi gli scrittori sono diventati intimisti, egoriferiti, persi nella bolla dell’autofiction, mi torna in mente Exit West. Una storia d’amore? Sì. Un thriller? Anche. Un ritratto politico, letterario, sociale del nostro tempo? Sicuramente. Un po’ come Sostiene Pereira, uno dei libri preferiti di Mohsin Hamid, autore di Exit West che adesso torna in libreria con un nuovo romanzo, L’ultimo uomo bianco (traduzione di Norman Gobetti, pubblicato da Einaudi), che prende spunto da una domanda simile a quella che si fece Kafka un secolo fa: cosa succederebbe se un uomo bianco, una mattina, si svegliasse e scoprisse di essere diventato «di un innegabile marrone scuro»?

Lei è nato a Lahore, ha vissuto a New York, a Londra, ha sempre creduto nel pluralismo, nella magia di quelle che lei chiama «esperienze universali». Quanto le ha dato, come scrittore e come essere umano, cambiare città, abitudini, modi di vivere?

Quando avevo tre anni mi sono spostato dal Pakistan alla California, a nove anni mi sono trasferito dalla California di nuovo in Pakistan. Quando avevo diciott’anni sono tornato in America. Poi, a trent’anni, sono andato a vivere a Londra. Quindi sono tornato in Pakistan che avevo circa quarant’anni. La mia vita è stata sempre un po’ ibrida, un misto, diciamo così, e quando ero più giovane pensavo che questo fosse un problema, che fossi diverso dagli altri, che fossi una sorta di straniero, sempre, ovunque mi trovassi. In seguito, però, mi sono reso conto che tutti si sentono stranieri, tutti si sentono strani, ecco, e che in un certo modo l’esperienza umana universale ci dice che dobbiamo essere strani, essere stranieri, non dobbiamo sentirci a nostro agio ovunque siamo.

Lei, così come i suoi personaggi, sostiene che noi siamo «esseri temporali», che «siamo tutti migranti attraverso il tempo». È questo che ci rende simili agli altri?

Sì, io credo che noi trascorriamo gran parte della nostra vita in uno stato di negazione, noi neghiamo il fatto di essere dei migranti, rifiutiamo questo nostro status, non accettiamo di non essere più giovani, di dover invecchiare, di dover morire. E non ci piace tanto pensare a noi stessi sotto questa prospettiva. Adesso lei è a Roma, se vivesse tutta la sua vita a Roma, quando sarà vecchio dirà: «Non mi sono mai spostato da qui». Ma la città è cambiata, la gente parla un linguaggio diverso e ha un aspetto diverso, veste abiti diversi, ma lei non penserà di essere un migrante, anche se in realtà lo è, è migrato dal 1970 al 2020, o dal 2020 al 2080. E proprio perché rifiutiamo questo concetto, di essere dei migranti, non abbiamo quel senso di compassione, non proviamo compassione per il fatto di essere noi stessi dei migranti. E rinnegando, rifiutando tutto questo, siamo costretti a rifiutare, a rinnegare le persone che provengono da altri paesi. Se noi cominciassimo a pensare che queste persone hanno sofferto, che queste persone hanno una loro storia, una loro vita, allora penseremmo di più alla nostra storia, anche se noi abbiamo passato tutta la nostra vita a non pensarci. Quindi, per me, l’idea della migrazione attraverso il tempo rompe il concetto che alcuni sono nativi e altri sono immigrati. Siamo tutti immigrati.

A differenza di tanti dei suoi colleghi, lei scrive romanzi brevi. È perché, come diceva lei, sono quelli che hanno più possibilità di durare nel tempo e di farci battere il cuore dopo tanti anni?

Credo che ci siano diversi motivi. Uno è perché io scrivo lentamente, fin da quando ero piccolo avevo molte difficoltà a scrivere con la penna, nessuno riusciva a comprendere la mia calligrafia. La posizione del romanzo, poi, è cambiata negli ultimi anni, adesso la gente passa ore e ore a guardare la tv, e comincia a conversare solo quando il programma è terminato. E in un certo senso, l’idea di un romanzo breve, di un piccolo impegno, appartiene proprio a un tipo di scrittura che è figlia della televisione, e io credo che in questo senso sia interessante vedere che i romanzi diventano sempre più brevi, ma richiedono comunque più impegno. Ci sono romanzi che chiedono al lettore di immaginare l’esistenza del protagonista, degli scenari, che non descrivono, quindi, che lasciano spazio al lettore, all’immaginazione. Chi sono queste persone? Come si sentono? Il lettore prende in carico questo romanzo e lo trasforma in un’esperienza ancora più grande.

Exit West e L’ultimo uomo bianco hanno diversi elementi in comune, penso alla presenza dei soldati, alle sommosse, alla paura di essere scoperti e di scoprire chi siamo veramente, al bisogno di fuga.

È proprio così, quando parti per un viaggio sei tu lo straniero, quindi Exit West è una storia che parla della partenza per un viaggio, e ne L’ultimo uomo bianco il protagonista diventa straniero nella sua città, non parte, cambia, in una sorta di narrazione a specchio, in cui ognuno è lo specchio dell’altro.

L’ultimo uomo bianco prende spunto da Kafka, ma poi, secondo me, attraversa autori di ogni tipo, penso a Cecità di Saramago, a La clausola del padre di Khemiri, a Camus, a Murakami, a Calvino. È così?

Sì, questi scrittori fanno parte di una tradizione, una tradizione in cui troviamo anche Borges, Le mille a una notte. All’interno del movimento letterario ci sono due filoni importanti, uno che dice “ecco cosa significa essere me” e l’altro che dice “vorrei immaginare di essere qualcun altro”. Questi due filoni si intrecciano, certo, ma immaginando di essere qualcun altro io capisco me stesso un po’ meglio, e raccontando chi sono qualcun altro è in grado di immaginare cosa significhi essere me. Quello che hanno fatto autori come Saramago, Murakami, Camus, è stato rendere familiare ciò che è straniero, per poterlo vedere nel modo giusto. È quello che ho cercato di fare anch’io.

Dove vive, adesso? Com’è la sua giornata tipo?

Divido il mio tempo tra Lahore e New York. Abbiamo i bambini, i bambini vanno a scuola, quindi spendiamo più tempo a Lahore che a New York. Londra è stata una casa davvero importante per me, la Brexit l’ho vissuta male, mi piaceva che facesse parte dell’Unione europea. Mia moglie lavora, quindi la mia giornata tipo è più o meno così: cerco di scrivere la mattina, mi occupo dei bambini quando tornano da scuola, ma per la maggior parte del tempo faccio di tutto per non scrivere dei libri. Sono un procrastinatore, scrivo lentamente.

Qualche anno fa aveva detto che la globalizzazione aveva da prometterci soprattutto una cosa: la libertà di inventare noi stessi. Com’è andata a finire?

In questo momento storico, ci sentiamo spaventati dal futuro. In tutto il mondo vediamo politici che si alzano e dicono che possiamo diventare grandi come lo eravamo nel passato, questo accade nel Brasile di Bolsonaro, nell’America di Trump, con la Brexit, nella Francia di Le Pen, nella Russia di Putin, in Turchia, nell’Iran dell’ayatollah. Secondo me non è una coincidenza, come può essere che in tanti paesi, così diversi tra loro, tutti promettono un ritorno all’epoca d’oro? Il motivo è che siamo terrorizzati dal futuro. Quindi, come scrittore, come artista, mi chiedo: come possiamo immaginare un futuro in cui vorremmo vivere? Quello che cerco di fare con i miei libri è esaminare le cose che ci spaventano di più del futuro, come la migrazione di massa, la perdita dell’identità culturale, la morte, e guardare a tutte queste cose pensando: cosa accadrebbe se non considerassimo tutte queste cose come la fine, come l’Apocalisse? Cosa accadrebbe se, invece, le considerassimo come una sorta di nascita di qualcosa di nuovo? È terrificante guardare al futuro, sì, ma io credo che il pericolo maggiore sia smettere di immaginarlo e cercare di tornare al passato. Penso che il ruolo di un artista, di uno scrittore, di un musicista, di tutti coloro che sono impegnati nel campo della cultura, sia quello di assumersi questa responsabilità e di aiutare l’umanità a immaginare dove possiamo andare, cosa ci piacerà, cosa vorremmo che accada in futuro.

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