Vi manca l’Italia? «Moltissimo. E credo che anche a voi manchi quell’Italia che noi rimpiangiamo». Così Jorge Colon chitarrista degli Inti-Illimani in un’intervista per i cinquant’anni di attività, diverso tempo fa. Nanni Moretti aveva fatto un documentario su quell’Italia, sul rapporto speciale di solidarietà che si costruì con il Cile al tempo del golpe: Santiago, Italia, parecchio apprezzato. Senti adesso “the people united will never be defeated”, lo slogan col quale un gruppetto di ragazzi hanno interrotto l’altro giorno a Milano l’inizio del discorso di Mario Draghi al summit per il clima, fuori campo mentre la camera non staccava il sorrisetto (paterno? infame?) del presidente; senti “el pueblo unido jamas serà vencido” mille volte cantato forse dai padri di quei ragazzi col pugno chiuso e il ciglio umido riaffiorare come da un fiume sotterraneo e ti chiedi come sia possibile, ancora.

Malinconia di sinistra, la chiamava Walter Benjamin già negli anni Trenta: la consapevolezza che la sconfitta non è mai definitiva. Che lo struggimento (non la rassegnazione) è ancora una forma di resistenza. Che il passato è sempre in attesa di una redenzione. Canzoni di quel passato ormai lontano, anni Settanta, in effetti ispirano sentimenti del genere. Anche per questo il rapporto con El pueblo unido e gli Inti-Illimani che la resero popolare da noi – come tutti i rapporti davvero profondi – ha toccato i due estremi. L’amore poi la disillusione, il lazzo, la noia. «La musica andina che noia mortale», cantò Lucio Dalla nella canzone che raccontava la sua fuga da Bologna 1977 e dall’Italia guerrigliera che non riconosceva più (il disco, uno dei più significativi dell’epoca, fu scritto in esilio alle isole Tremiti). Poi si scusò personalmente con gli Inti-Illimani. «È stato a mangiare a casa mia, era un grande», ha ricordato ancora Jorge Colon.

Le battute di destra

Ancora il giorno che morì Pinochet, dicembre 2006, Beppe Grillo fece un post sul suo blog: «Il suo delitto più grande – scrisse – è aver permesso la fuga in Italia degli Inti-Illimani. Dal 1973 stazionano nelle nostre televisioni. (...) Sono dei reduci musicali a vita. La loro influenza politica è stata enorme. Spettacolo dopo spettacolo hanno esaltato ai nostri occhi l’operato di Pinochet». Battuta vecchia, sgradevole, simile a quelle fatte negli anni da decine di altri comici qualunquisti, di destra o appena disillusi. A Grillo rispose ancora Jorge Coulon da Santiago, colpito da tanto astio: «Siamo tornati a casa nel 1988 e da allora viviamo nel nostro paese». Grillo: «Sono un comico. So tutte le vostre canzoni a memoria (…) Se tornate siete invitati a pranzo a casa mia».

Esiste anche un repertorio di battute di destra sugli Inti-Illimani, sui poncho, i cappellini di alpaca, la sinistra grigia e noiosa. Ma sono molto meno interessanti. Diverso e di più lunga durata l’odio contro Bella Ciao, bersaglio dei fascisti veri e quelli che si nascondono dietro il proprio dito. Ormai fuori gioco Bandiera Rossa e L’Internazionale. Più ambiguo (e interessante) il fastidio verso El pueblo unido. Ma si contano versioni ucraine e cinesi, turche e anche filippine dell’inno scritto da Sergio Ortega nel 1970 per festeggiare la vittoria alle elezioni di Unidad Popular e Allende. Sono state cantate in piazza e in manifestazione. Nelle ultime apparizioni del movimento inglese Extincion Rebellion lo slogan viene spesso sottolineato e twittato. Da qui, credo, il suo uso nelle contestazioni durante il summit milanese.

Ortega era un giovane compositore colto, autore di cantate teatrali su testi di Neruda, poi di inni politici e numeri da agit-prop su ispirazione del governo Allende, profondamente influenzato da Brecht-Eisler nel riuso della musica popolare (andina in questo caso) e nella chiarezza di rapporti tra forma e contenuto. El pueblo unido fu inciso prima dai Quilapayun, i quali però andarono in esilio in Francia. Poi dagli Inti-Illimani che il giorno del golpe erano in Italia a registrare il loro disco Viva Chile! E lo cantarono in fondo al secondo album del 1975, uscito per la Vedette Records, con in copertina l’uccellino stile Woodstock dei grafici cileni fratelli Larrea. Per inciso, gli studi di Cologno Monzese dove registrarono, tecnologicamente all’avanguardia e con lo stesso ingegnere del suono dei dischi anni Ottanta di Battiato, si trovavano esattamente dove ora sta Mediaset.

La stessa storia

Un ricercatore dell’università di Roma, Stefano Gavagnin, musicologo che da anni lavora sulla fortuna della musica andina e della nuova cancion chilena in Italia, ne ha svelato per così dire il segreto. Dopo anni di tango, mambo, calypso, Silvana Mangano e Sofia Loren, peccati e cha cha cha, la ricezione di una musica sudamericana avveniva per la prima volta al di fuori della consueta cornice esotica e/o erotica. Non solo. In un periodo di forte politicizzazione a sinistra della società italiana, le canzoni degli Inti-illimani, quelle di Violeta Parra o di Victor Jara che era stato ucciso nello stadio di Santiago durante il golpe, parlavano ai ragazzi e ai militanti su un piano di assoluta parità: il golpe in Cile e l’avanzata delle sinistre italiane nel 1975-76 facevano parte della medesima storia. Quando gli Inti-Illimani cantano Venceremos non parlano di un luogo lontano, parlavano di noi. Per questo El pueblo unido è una canzone diversa da tutte le altre per noi, nel canzoniere italiano

Nel tempo sono state costruite più sofisticate meditazioni musicali sulle note di quella marcia, in cui si cammina uno stretto all’altro finché «il popolo si alza e grida: avanti!». Charlie Haden la faceva (free) jazz, i Thievery Corporation l’hanno reinventata tipo cafè del mar, i 99 Posse rap combattente tendenza Genova senza dimenticare di aggiungere i versi della versione estrema «el pueblo armado/ jamas serà matado».

Il compositore contemporaneo Frederick Rzewski, americano trapiantato in Italia, nel 1975 scrisse 36 variazioni sul tema principale della canzone (a sua volta composto di 36 battute) seguendo la struttura delle Goldberg o delle Diabelli Variation, senza mai sfiorare neppure per un attimo la parodia, spingendo l’esecutore a una performance atletica. Scomparso l’anno scorso, Rzewski è stato ricordato soprattutto per quella impresa, incisa più volte su disco da grandi pianisti. In un’eventuale classifica lui è inarrivabile.

Messico mitico

Si può discutere, naturalmente, sul fatto che già l’estetica realista di un gruppo venuto su nella gioventù comunista cilena non ispirasse un qualche altro tipo di esotismo, meno scontato e visibile. La critica progressive di allora – che pure spingeva verso la musica improvvisata di discendenza popolare ed etnica – poco amava quell’austera e geometrica messainscena (poncho scuro, immobili sul palco, grafiche da murales socialista), così “maschile”, tanto profondamente legata alla sinistra istituzionale delle feste dell’Unità, per nulla “psichedelica”, esclusivamente contenutista.

In realtà gli Inti-Illimani cantavano in spagnolo usando strumenti profondamente esotici come il flauto di pan, il charango e il triple. Eppure suonavano familiari. Qualcosa del genere, in termini di suono, si era potuta ascoltare nelle partiture spaghetti-western di Ennio Morricone per Leone e Corbucci. È solo un’ipotesi, ma quella era esattamente la rappresentazione che avevamo di un Messico lontano, perennemente rivoluzionario, vamos a matar compañeros, che il golpe cileno ci aveva reso improvvisamente vicino. Il secondo album, quello del pueblo unido, aveva in scaletta Asi come matan los negros, scritto da Sergio Ortega su testo di Neruda e tratto da una cantata dedicata al bandito Joaquim Murieta ambientata in California durante la corsa all’oro. All’epoca non ci fece quasi caso. Oggi si può ascoltarlo anche così, come un piccolo western.

Ennio Morricone era stato collaboratore di Frederick Rzewski nel mitico Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Nel 1978 gli Inti-Illimani, firmato un nuovo contratto con la Emi, si spostarono a registrare al Forum Studio di piazza Euclide a Roma, regno del geniale e lunatico maestro, e lo conobbero finalmente.

A quel punto spaghetti-western non se facevano più. Si parlò di una collaborazione per la colonna sonora “sudamericana” di Missoin. Sarebbe stato interessante, forse anche “rivelatore” ma non se ne fece nulla. Fu incisa in Inghilterra da semplici turnisti, secondo l’uso.

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