«Se sei stanco di Londra sei stanco della vita», scriveva Samuel Johnson. Eppure la Londra dell’ultimo anno non è stata certo la Londra febbrile, luccicante e traboccante di stimoli che viene in mente quando si pensa a Londra. È stata una Londra svuotata, simile certo a tutte le altre città svuotate dalla pandemia, ma con la caratteristica aggiuntiva di essere una città che da sempre, nell’immaginario mondiale, è simbolo di vita inarrestabile, dunque il suo aspetto desolato, sospeso, moribondo, così diverso da quello che da sempre pretendiamo di attribuirle, si prestava benissimo a incarnare la nostra pandemica malinconia.

«Com’è Londra, in questo periodo? Completamente vuota, vero?» mi chiedevano le amiche dall’Italia, cercando una specie di conferma geografica a quello sperdimento e sfinimento che accomunava tutti, e che in qualche modo aveva bisogno di vedersi incarnato nelle strade di una metropoli che si immagina traboccante e tentacolare, esplosiva di stimoli. Se Londra era ferma, qualcosa si era fermato davvero: non solo la vita sociale e commerciale ma persino qualcosa della vita interiore, archetipica, dell’essere umano: un paio di amiche, una catanese e una romana, che mai erano state nella capitale inglese, durante il primo lockdown la sognavano spesso e mi chiedevano conferma di certi edifici, certe strade, sicure che i loro sogni pieni di panico e di virus (mascherine, distanze di sicurezza, ambulanze) avessero azzeccato la topografia di quella città immaginata e mai vissuta.

Londra da soli

Londra da sempre si presta a essere simbolica, con tutte le sfumature e le complicazioni del suo paesaggio urbanistico e culturale, con il suo melting-pot e la sua creatività debordante, la sua musica e le sue icone della moda e della ribellione. Ma, mentre i lockdown la tenevano a bada, tra negozi chiusi e impedimenti vari, si aveva la strana sensazione che tutti i suoi fantasmi – gli scrittori e cantanti che amiamo – tornassero a vivere: le strade erano state loro restituite. Così Brixton – il quartiere vivacissimo con radici caraibiche – era di nuovo il quartiere di David Bowie: il murales del suo volto, ora protetto dal plexiglas, splendeva solo e austero senza più i turisti con i loro selfie. Bloomsbury invee era di nuovo di Virginia Woolf: in attesa della sua statua a Richmond, era bello durante il lockdown sedersi sulla sua panchina preferita, ricordata da una targa con una foto, o fare i pellegrinaggi tra le sue diverse case (una è sede di una società studentesca di letteratura, di cui ho fatto parte ai tempi dell’università, l’altra purtroppo è scomparsa, al posto c’è un albergo). D’altronde lei stessa aveva scritto «Passeggiare da sola per Londra è la più grande forma di riposo»: a quel tempo, proprio come in pandemia, era possibile passeggiare per Londra “da soli”, perdendosi in un tipo di contemplazione fatta di spazi vuoti (dunque perfetta a far germogliare la scrittura), che era invece impossibile con le folle pre-virus.

Così come era bello andare a trovare Sylvia Plath, nel quartiere elegantissimo di Primrose Hill, dominato dal parco rado da cui si vede tutta la città, nella sua casa che era stata già di Yeats, e poi mandare un saluto a Dylan Thomas, poco più in là, vicino allo splendido Regent’s Park con le sue oche e i suoi laghetti (e il suo Hugh Grant di About a boy). E che dire di Amy Winehouse? Suonava ancora a Camden Town, durante le interminabili quarantene dei vivi, stavolta solo per i morti? Una scena che ho immaginato in un mio romanzo qualche anno fa e che adesso non mi pare più così bizzarra. Solitamente questi fantasmi sono mescolati alla vita: che stordimento, che stranezza, invece, in questo anno di lockdown in cui la vita è venuta meno dalle strade, sentire solo i fantasmi, sentirli nel vento freddo delle strade quasi vuote.

In fila per locali e tamponi

Finché, dopo una campagna di vaccinazione che ha suscitato l’ammirazione di tutta Europa, Londra è tornata alla vita. È accaduto in questi giorni. Le persone si sono riversate nelle strade, in file chilometriche davanti ai locali. Camminare e osservare questa vita rigenerata mi ha brevemente confortato, poi però mi ha provocato sgomento: davvero basta la fine di una restrizione per far dimenticare alla gente il rischio che ancora corre? Solo un paio di giorni fa mi è arrivata un’allerta della Nhs, il servizio sanitario nazionale, che invitava tutti gli abitanti di Lambeth (il borgo di cui fa parte il mio quartiere, che, rimanendo in tema, è anche il borgo del fantasma di William Blake) a fare un tampone, poiché nella zona erano stati trovati parecchi casi della variante africana. La nota specificava che non si sa ancora se i vaccini in uso proteggano dalla variante, e dunque anche i vaccinati erano caldamente invitati a farlo.

Insomma, mentre io e altri facevamo la fila per i tamponi nei parchi come richiesto, altri della mia età facevano la fila per i locali più in. Le folle si moltiplicavano, e così anche le immagini sul web di questa Londra nuovamente sbocciata, di gente accorpata e  gioiosa e senza mascherina (l’obbligo non c’era neanche prima): le immagini sono approdate anche sulle bacheche Facebook, diventando nella mia bolla simboli di un ingenuo inno alla vita che ci veniva restituita dopo l’incubo interminabile del virus.

Che bella Londra che sorride di nuovo, che respira; che bella questa Londra vaccinata; queste immagini commuovono come una guarigione, sono solo alcune delle frasi leziose spese qua e là sui social, una naivetè a cui non si è sottratto nessuno. Ma se ci togliamo gli occhiali rosa dei nostri facili entusiasmi, appannati dall’apnea da lockdown, vedremo che la realtà dei fatti è che la riapertura di Londra, ça va sans dire, non è legata a nessuna salvezza: le persone in strada, fuori dai locali, le persone in foto – che hanno un’età dai 15 ai 30 anni – non fanno parte delle fasce della popolazione che sono state già vaccinate.

L’estero per noi

La realtà dei fatti è che quelle foto non sono diverse dagli assembramenti ai Navigli qualche mese fa, l’unica differenza sta nello sguardo: il nostro è lo sguardo esterofilo di chi identifica, a prescindere, nelle scene di vita provenienti dall’estero una qualche redenzione avvenuta, un miglioramento, una guarigione appunto. L’estero, nello sguardo italiano, è sempre la cartina di tornasole di un nostro insuccesso, o di un successo a cui bisogna ancora lavorare molto per approdare. Certo, i dati sono rassicuranti – la campagna di vaccinazione sta funzionando ottimamente – ma appiattire questi dati a una specie di avvenuta liberazione è naif e offensivo per i nostri stessi traguardi, le nostre stesse tragedie sventate.

Il battito esterofilo del nostro cuore tende a una tachicardia spesso dannosa per l’analisi dei fatti: entusiasmarsi di Londra è comprensibile (io sono la prima ad amarla intensamente) ma l’entusiasmo non deve mai annebbiarci, distrarci dal dovere umano di razionalizzare, di guardare sotto la superficie luccicante (ed estera) delle cose. Altrimenti accadono sbilanciamenti come quello dell’altro giorno: rimbeccati da una pagina Facebook sino-americana, Hultziger e Scotti si sono scusati (giustamente) per l’imitazione di un cinese, ma mai nessuno che si lamenti per la macchietta dell’italiano con mandolino e gesticolazione compulsiva così ricorrente nei film anglofoni: tolleriamo quell’immagine, la amiamo persino, con un po’ di vergogna forse, ma senza mai l’ombra di una sana ribellione.

Il razzismo ci disturba solo nelle sue pieghe più epidermiche e nostrane, in prima serata sul nostro divano, e mai che qualcuno metta in pausa la commedia americana di turno e protesti per l’ennesimo italiano con un accento farsesco a metà tra Tony Soprano e il pizzaiolo di Lilli e il Vagabondo. Forse ci vorrebbe un vaccino anche per questo: per guarirci dai cliché interiorizzati e dall’amore cieco per ciò che italiano non è.

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