«Non va bene»; «Avanti un altro». Nel 1975 Frank Zappa sta cercando un nuovo batterista, le audizioni sono in corso in un capannone nella periferia di Los Angeles. Per velocizzare il processo ci sono due batterie: mentre un musicista si prepara, l’altro viene provinato da Zappa, e spesso scartato dopo qualche secondo. Si racconta di un batterista tirato giù dalla pedana dai bodyguard. In giro, sparsi, ci sono fogli di musica complicatissima.

Terry Bozzio all’epoca ha 25 anni, non conosce la musica di Zappa, a parte un paio di dischi che ha comprato tre giorni prima. Non ha dormito, cercando di memorizzare le parti. Ha volato da New York, ha preso un treno, poi un taxi. Vede la situazione, vuole rinunciare al provino. Decide di tentare.

Zappa gli fa suonare Approximate, un brano in cui lo schema ritmico è definito, ma estremamente complesso, mentre le altezze delle varie note sono a discrezione del musicista, vengono solo suggerite in un certo “range”. Quando Bozzio si trova davanti una suddivisione ritmica di 13/3 la suona lentamente, poi spiega che ha capito come si esegue, ma non riesce a suonarla leggendola a prima vista a quella velocità.

Si passa a testare la sua capacità di memorizzazione. Zappa propone a Bozzio di suonare un 5/8 per passare a un 9/8, a 11/8, per tornare a 5/8. Bozzio suona. Segue un brano in 19/16 (vale a dire, spiega Bozzio un normale 4/4 più 3/16, alla Billy Cobham). Si conclude con un blues. Zappa dice: «Mi piace come suoni. Dopo aver sentito gli altri vorrei ascoltarti di nuovo». Ma gli altri candidati sono scappati via, tutti. Nel capannone vuoto Zappa si rivolge a Bozzio: «Il posto è tuo se lo vuoi».

Bozzio diventerà per anni il riferimento ritmico di Zappa, per lui è stato scritto uno dei brani più complicati della storia del rock, The Black Page, la “pagina nera” per il numero di note che la ricopre, il banco di prova di ogni hybris percussionistica.

Un musicista divisivo

Quando si parla di Frank Zappa portato via da un cancro alla prostata nel 1993, tutto sconfina nell’esagerazione, nell’osceno, o in un certo senso, volendo, nel trascendente.

In questi giorni è in uscita un documentario su Zappa, del regista Alex Winter, finanziato con un milione e mezzo di dollari su Kickstarter, ma ancora non visibile in Italia. Ci fidiamo della bravura di Winter (notevoli i suoi lavori sul deep web e su Napster) e delle testimonianze del documentario, che comprendono la moglie di Zappa, Gail, scomparsa nel 2015, oltre che, tra gli altri, Ian Underwood, il bassista Scott Thunes, il chitarrista Steve Vai, e l’amica di sempre, la supergroupie Pamela Des Barres.

Notiamo l’assenza nel film di Dweezil Zappa, il figlio di Frank, che negli ultimi anni aveva portato in tour la musica del padre nella (magnifica) serie di concerti Zappa Plays Zappa, e constatiamo che dalla morte del musicista gli eredi non hanno smesso di litigare. La cosa non fa meraviglia, piuttosto si addice a un musicista divisivo in nascita, vita, e morte.

Nato il 21 dicembre 1940 da madre italo-francese e padre di Partinico (Palermo). Nella città natale del padre Zappa è tornato a prendere un caffè il 14 luglio 1982, festa di Santa Rosalia, e occasione per un suo concerto palermitano (interrotto dalla polizia coi lacrimogeni dopo 50 minuti). Il padre, Francis Zappa senior, era un chimico che lavorava per il Pentagono. Il primo giocattolo del piccolo Frank è stato una maschera antigas.

Dagli esordi con le band scolastiche, alla collaborazione con Captain Beefhart, ai lavori orchestrali degli anni Ottanta e Novanta, un personaggio non solo “larger than life” come direbbero gli americani, ma anche “larger than art”. Per la sua capacità di far scorrere mondi musicali opposti in un’unica, irrefrenabile, piena. Da una parte l’avanguardia europea – Zappa è cresciuto con Edgar Varese e Igor Stravinskij – dall’altra la vena blues, jazz, doo wop.

Le composizioni di Zappa sono trame fitte di note scritte, maniacalmente scritte, e spazi bianchi in cui i musicisti hanno libertà completa di improvvisazione. Ogni concerto di Zappa era un dispositivo temporale strutturato in modo da cavalcare il caos. Ad esempio: i musicisti dovevano imparare ogni canzone del repertorio (si parla di una cinquantina di brani a tour) in tre o quattro versioni diverse; poi, sul palco, Zappa, usando segnali stabiliti, a volte mutuati da quelli dei giocatori di baseball, modificava in tempo reale lo stile del brano. Ulteriore stress per chi si trovava sul palco con lui.

Una volta, riferisce il critico Ted Gioia, un musicista fu licenziato in tronco per non aver capito di dover suonare, al volo, la melodia del vecchio classico rock Louie Louie.

Oltre i confini del brutto

L’eccezione Zappa non si può raccontare attraverso il bello, se mai attraverso il sublime, quel che è quantitativamente o dinamicamente eccessivo, oltre i confini del brutto. Già Alberto Arbasino in un suo reportage newyorkese del 1966 (si può leggere in America Amore, Adelphi) riferiva, entusiasta, di un concerto di Zappa con i Mothers of Invention, definendoli capaci di manipolare il valzer «con più sofisticazione addirittura di Ravel» ma allo stesso tempo «selvaggi, blasfemi, pornografici, allucinogenici».

I titoli di molti brani di Zappa parlano da soli, da Stinkfoot a Alien Orifice a Why does it hurt when i pee, allo strano brano presente sul disco Uncle meat, il cui testo è stato cantato e scritto dal giornalista Massimo Bassoli: Tengo ‘na minchia tanta.

E poi eccessiva la discografia, oltre cento dischi di cui una sessantina pubblicati in vita e gli altri postumi dallo “Zappa family trust”. Eccessivo il numero di note, come abbiamo visto. Eccessiva la sua mania di controllo, al punto che negli ultimi anni Zappa ha realizzato diversi dischi con il campionatore, assunto che i computer (allora si usava il Synclavier) «fanno meno errori degli umani», e che in un’intervista a David Letterman si è scusato se il disco con la London Symphony Orchestra poteva contenere delle imperfezioni, dato che non era stato provato, secondo lui, a sufficienza. Terribili (per i musicisti) i suoi casting, abbiamo visto.

Atroci (sempre per i musicisti) alcuni momenti sul palco. Il chitarrista Steve Vai racconta di un concerto, ultima tappa del tour del 1980, ad Albuquerque, in cui dopo mesi di cibo scadente, poco sonno, tappe estenuanti, si trova sul palco in balia di vomito e dissenteria.

Il ventenne Vai viene fissato alla pedana della batteria con due stampelle e alcune cinghie, nel caldo assassino di un locale senza aria condizionata nell’estate del New Mexico. Ha un secchio a lato del palco per raccogliere i fluidi corporei. Suona impeccabilmente. Ha solo un attimo di mancamento quando il tastierista, improvvisando, mette dentro la melodia di White Christmas.

Personaggio complesso

Si può pensare a Zappa come a un provocatore, una sorta di giocoliere. Sbagliando. Zappa usava l’umorismo per prendere le cose sul serio, nella sua produzione non c’è niente di goliardico. Del resto il personaggio era ideologicamente molto più complesso di quanto l’icona con baffi e barbetta possa far pensare.

Zappa era contrario alle droghe, detestava la cultura hippie negli anni Sessanta quanto la cultura yuppie negli anni Ottanta, è stato in perenne conflitto con le case discografiche. Era perfettamente lucido nel chiamare i figli Moon Unit, Dweezil, Ahmet, Diva Muffin. A chi scrive, qualche anno fa, il figlio Dweezil ha detto: «Da molti punti di vista mio padre si sarebbe potuto definire un conservatore».

Alle prese coi temi classici: vita/morte/bene/male. Si veda uno dei suoi brani più sorprendenti, la sua personale rivisitazione dell’Historie du Soldat di Stravinskij. È il classico tema faustiano: un soldato tentato dal demonio. L’anima e la fidanzata, in cambio del denaro e del successo.

Nella versione di Zappa non c’è un soldato ma un motociclista, a cui il diavolo fa sparire la ragazza e le birre, e non ha nessuna esitazione. È prontissimo a firmare col sangue. Insiste. Tormenta il diavolo con domande inopportune. Alla fine è Satana che scappa, di fronte a uno a cui non importa niente di niente, e ha in mente solo due cose: Titties and beer.

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