Luigi Celeste, l’uomo che ha ispirato il film Familia: «Gli Oscar? Ho la pelle d’oca. Il parricidio è il mio macigno»

Sono passati nove anni da quel colloquio nella sede di una grande azienda informatica dove tutto, in fondo, è cominciato. L’esistenza di Luigi è diventata nota al grande pubblico con il film Familia del regista Francesco Costabile. La trama è fedele ai fatti accaduti: Luigi giovanissimo che uccide il padre per proteggere la madre dalle violenze dell’uomo padrone. Condannato, in carcere rinasce, diventa un super esperto informatico. E una volta uscito, nel 2016, inizia la scalata professionale nella cybersicurezza, che ora lo vede assunto in un’importante agenzia pubblica europea. La pellicola ha incassato riconoscimenti prestigiosi: David di Donatello per il miglior attore non protagonista (Francesco Gheghi, che ha interpretato proprio Luigi), premio Orizzonti del festival del cinema di Venezia per la migliore interpretazione maschile e pure il Nastro d’Argento 2025. Ora il comitato di selezione di Anica (l’associazione del cinema e dell’audiovisivo) ha annunciato a sorpresa di aver selezionato il lungometraggio di Costabile per provare a correre agli Oscar, che si terranno la notte del 15 marzo 2026. Toccherà ora all’Academy valutare la proposte, eventualmente inserire Familia nella shortlist e, chissà, magari nelle nomination ufficiali che verranno rese note il 22 gennaio prossimo. Un Oscar senza l’Italia: «Troppi stereotipi in America sul nostro cinema» Luigi, il percorso verso il Dolby Theatre di Hollywood è ancora lungo, ma per te è già così è un po’ la chiusura di un cerchio. Come se le cicatrici che porti ancora sulla pelle si fossero in qualche modo rimarginate. Roba da pelle d’oca. Ho capito che stava accadendo qualcosa di incredibile quando ho iniziato a sentire decine di notifiche sul cellulare. Quando ho visto per la prima volta il film, cioè il prodotto ultimato, ho pianto. Per me è stato come mettere un punto. La fine di un personale processo di riscatto iniziato tra le sbarre del carcere di Bollate. Come se la rabbia avesse lasciato lo spazio a qualcos’altro? Come se finalmente avesse lasciato spazio alla vita normale, l’esistenza che ho sempre rincorso ma che le condizioni sociali mi hanno sempre impedito di avere. Le ingiustizie subite, il dolore che ha scaraventato me, mia madre e mio fratello in un abisso di tormenti e sensi di colpa, hanno forse trovato un senso in questo processo di riscatto. Le ferite però restano. Il dolore non si cancella. Ma l’interesse che la mia storia ha suscitato nelle persone con il libro, con il film, è un modo per fare i conti con quel dolore e quella storia che ci ha segnato. Gabbie, rabbia e violenza nella “Familia” di Costabile Parricida, un macigno da strascinarsi dietro insopportabile. È stato il peso più grosso da portare sulle spalle. Quello che definiscono parricidio, un figlio che uccide il padre, beh insomma… difficile fare i conti con l’essere accomunato a chi uccide il padre per l’eredità o per avidità. Il mio è stato un gesto estremo per difendere mia madre dall’ennesima brutale violenza, con mio padre armato di coltello che la minacciava. Nella tua storia si intrecciano questioni di estrema attualità. L’emarginazione, il disagio giovanile, la violenza sulle donne e l’incapacità delle istituzioni di difenderle dagli abusi. Il paradosso è che mio padre era stato denunciato da mia madre per i maltrattamenti. Lui scontò appena un anno, mentre io all’età di dieci anni per quattro anni fui costretto a vivere in strutture con altri ragazzi a rischio. La denuncia di mia madre, Licia, era lunga otto pagine, dettagliata: lei il suo dovere lo aveva fatto eccome, le autorità un po’ meno. Erano gli anni dell’adolescenza quelli in cui la rabbia ti cambia e ti incattivisce per le ingiustizie di cui sei spettatore. Questa rabbia sociale trova sfogo nell’affiliazione a un gruppo di naziskin milanesi. Non c’era consapevolezza, non c’era una fondamento ideologico, solo necessità di trovare un canale dal quale espellere la rabbia. Sono convinto che anche la condanna per aver ucciso mio padre sia stata più dura del dovuto, rispetto ad altri casi simili anche più recenti, per via del mio passato da nazi. Così come le difficoltà negli anni di detenzione di ottenere benefici per svolgere attività fuori. Ma i giudici dovrebbero sforzarsi di comprendere le condizioni e i fattori sociali che hanno determinato certe scelte. Il tempo vuoto nel carcere minorile si può riempire: il caso del Ferrante Aporti di Torino A proposito di benefici. A Bollate, in cella, sei rinato grazie al percorso offerto dalla multinazionale Cisco e ai corsi di formazione. Sono stato il primo a diplomarmi in informatica in carcere. E pensare che per fare l’ultimo esame all’esterno ho dovuto penare, anzi ho proprio rischiato di non farlo: il giudice di sorveglianza non mi aveva voluto concedere il permesso per recarmi alla prova di esame. Ma io, con i miei ricorsi, alla fine ho vinto. Senza quel permesso non staremmo qui a parlare né della tua carriera professionale né del successo di Familia. Non dimenticherò mai il magistrato che chiese il mio arresto dopo l’omicidio di mio padre. Lo rincontrai molto tempo dopo. Disse in udienza nel processo in Appello: «Il papà di Celeste ha infierito molto da vivo sulla vita di questo ragazzo, non lasciamo che lo faccia anche da morto” ». Mi ha commosso. Tua madre Licia è scomparsa di recente. Ma è riuscita a vedere il film. Come ha reagito alla visione di Familia? Lo guardava come se fosse la storia di altri. Pensa: ha visto la prima proiettata a Milano, ma sarebbe dovuta venire a Venezia. Purtroppo alla fine per motivi vari non ce l’ha fatta. Ero talmente felice di andare al festival del cinema più importante del paese che avevo fatto fare gli abiti su misura per tutti: per lei e per mio fratello. Secondo te anche per lei si era chiuso il cerchio della vostra storia? In qualche modo sì. Lei ha sempre vissuto con un grande senso di colpa tutto ciò che è accaduto a me. Come se fosse divorata dal rimorso di non aver fatto abbastanza. Dopo aver visto il film però è accaduto qualcosa di definitivo: lei nonostante le brutalità subite da mio padre, teneva sul comodino una sua foto. Dopo la prima proiezione, l’ha tolta e me lo ha comunicato, soddisfatta per il gesto. Ho capito che pure per lei il punto era stato messo. Sbagliava a sentire su di lei tutto quel peso. Ha sempre fatto il massimo, per questo anche sul letto di morte le ho ripetuto che è la numero 1, che non doveva sentirsi colpevole per atrocità commesse da altri. Ci siamo salutati così. Tu hai conosciuto anche l’emarginazione, quella condizione in cui un ragazzo non può permettersi neppure di sognare. Se faccio oggi l’informatico ad alti livelli, lo devo a una passione che avevo da ragazzo. Giù in quegli anni desideravo lavorare nel settore, ma non potevo permettermi un computer. Lasciai la scuola e andai a montare caldaie in giro per Milano. Da lì fu una discesa negli inferi: l’estremismo neonazi, le risse, la condanna per le azioni violente con quel gruppo di cui facevo parte. Avere delle opportunità salva da tutto questo. Io rinato in un carcere, condannato come senza speranza, ne sono la prova. La catarsi nera della famiglia, da cui si esce morti o assassini Alla prima proiezione di Familia a Milano c’erano i poliziotti della Digos e i carabinieri che ti avevano arrestato per l’omicidio di tuo padre. (Ride, ndr)... Sì, li ho invitati perché rappresentavano snodi cruciali della mia vita. I poliziotti della Digos furono quelli che mi arrestarono per le risse assieme agli skinhead, i carabinieri mi ammanettarono per il “parricidio”. Io dal palco li ho ringraziati. Sì, l’ho detto chiaramente: è grazie a voi se sono qui, perché in fondo è con il loro intervento che si è interrotta la scia di rabbia che mi ha portato in carcere a Bollate dove poi sono diventato quello che sono ora. Cosa sei ora? Un uomo, super esperto di sicurezza informatica, che conosce anche il sapore della felicità. Stai pensando agli Oscar? Vedremo. Nel caso faccio rifare degli abiti nuovi su misura. Il ddl Femminicidio è «un pezzo di storia», ma servono più fondi: nel 2024 quasi mille donne fuori dalle case rifugio