Cinquant’anni fa, nel luglio 1972, David Bowie fece la sua prima grande apparizione a Top of the Pops, la classifica delle canzoni più vendute, sul primo canale della Bbc all’ora di cena. Di fronte a un pubblico di ragazzi e alle loro famiglie costrette ad assistere mimò in playback Starman, storia di un alieno che vuole incontrarci e arriverà sulle onde della radio, anzi della tv. Cambia canale che si vede molto meglio passano parola i ragazzi al telefono, però sta attento che potrebbe esploderti la testa e non farlo sapere a papà altrimenti rischi che lui ti chiuda in casa.

L’icona Bowie

L’alieno era lui. Cioè no, lui era Ziggy Stardust: la rockstar “di plastica” nata dall’incontro con l’alieno. Aveva preparato con cura la rappresentazione come fosse un piccolo musical. Le canzoni di un intero album scritte durante un viaggio negli Usa rendevano omaggio a Iggy Pop e allo spirito animale del rock, a Lou Reed, ai bassifondi di New York, all’estetica di Andy Warhol, alla fantascienza e a certi angeli caduti come il cantante di rock’n’roll Vince Taylor che agli alieni credeva veramente e una volta si era presentato sul palco vestito di bianco dicendo di essere Gesù.

La tutina attillata che indossava, paillettes color arcobaleno, costume di scena delle apparizioni, era nata dalla collaborazione con uno stilista diciannovenne, Freddy Burrett, aspirante cantante, conosciuto al gay club Sombrero. C’entrava anche la visione dei drughi di Arancia Meccanica. Stanley Kubrick era stato già un modello per Space Oddity. I capelli rossi pare fossero rubati ai modelli unisex delle sfilate di Kansai Yamamoto. A guardare bene, anche alle dive pop della tv, Petula Clark, Iva Zanicchi. La messa in piega gliela fece un’amica parrucchiera del quartiere di Beckenham. Sulla dimensione industriale della cosa vigilava il manager Tony Defries, che gli aveva procurato il contratto con la Rca.

In gennaio Bowie aveva dato un’intervista al settimanale Melody Maker: «Sono gay, lo sono sempre stato da quando ero David Jones» (il suo nome precedente). «Ha iniziato a indossare abiti di tutti i tipi due anni fa», aggiungeva l’autore dell’articolo Micheal Watts, «un gioco affascinante».

A 25 anni, con una moglie e un figlio appena nato e «un sorriso malizioso agli angoli della bocca» l’ambiguità era più un congegno teatrale che una rivelazione personale. Anche per questo i momenti più mitologizzati dell’apparizione a Top of the Pops furono due: lo sguardo in macchina, il dito puntato, col quale il cantante sottolineava il verso «dovevo telefonare a qualcuno e ho scelto te», e il languido braccio al collo del chitarrista Mick Ronson, biondo e tutto vestito d’oro durante il ritornello («È l’uomo delle stelle/ ti aspetta in cielo») che aveva lo stesso salto di ottava di Over the rainbow, cioè Judy Garland, cioè uno degli inni gay di ogni tempo.

L’evoluzione Måneskin

Stacco. Alla fine dello scorso giugno i Måneskin suonano dal vivo in un mega festival polacco: il Superhit Festival di Sopot sulla costa del mar Nero, una delle molte Sanremo dell’est. In diretta tv il cantante Damiano e il chitarrista Thomas ripetono proprio il gesto di David Bowie e Mick Ronson. Non è la prima volta, ma per rafforzare il concetto si baciano sulla bocca. «L’amore non è mai sbagliato» grida Damiano in uno dei paesi più omofobi d’Europa, quello delle famigerate “Lgbt free zone”. Il mese dopo, in una conferenza stampa, il gruppo romano dà il suo sostegno alla legge Zan (a quel che ne resta, insomma alla bandiera). Infine sull’ultimo numero di Diva e Donna, rotocalco noto fino a non molto tempo fa per costruire fidanzati/e di cartapesta, leggiamo: «Victoria dei Måneskin ama una donna; esce allo scoperto».

Non so a chi della folta squadra di stylist e produttori che lavora con il gruppo romano si possa attribuire la trovata teatrale di rifare Bowie/Ronson e rendere un omaggio così preciso alla vocazione fluida e bugiarda del glam rock. Lo stylist Nick Cerioni che li ha seguiti al festival di Sanremo e nella stessa occasione ha ripetuto il gioco con Achille Lauro e il suo socio chitarrista Boss Doms, è fortemente indiziato. Marchigiano cresciuto tra New York e Milano, seguace della religione di Raffaella Carrà e stylist di Orietta Berti all’ultimo Sanremo, Cerioni è una delle figure più colte e interessanti della nostra scena (post-)musicale. Fa parte dell’ultima generazione che al Plastic di Milano ballava e cantava nella notte le canzoni delle nostre dive anni Ottanta secondo la biografia sentimentale di più di una generazione (fluida). Dei suoi rapporti con l’iconografia del passato dice: «Penso che siamo molto più bigotti oggi di allora».

Interessante. Fratellini della miglior cultura gaia italiana, dunque. Usciti da X Factor dove ti insegnano le buone maniere, i birignao e i vezzi della vecchia tv. La Sony li ha portati sul tetto del mondo in pochi mesi – su Spotify e nell’universo dello streaming come se fosse ancora il 1992. Sono il trionfo della discografia vecchio stile, la restaurazione momentanea della musica prima della Rete. Hanno cambiato manager, ma il nuovo Fabrizio Ferraguzzo condivide il loro percorso: è passato prima per X Factor e per la Sony. Victoria. Damiano, Thomas, Ethan (i Måneskin si chiamano per nome come un complesso di pop coreano) sono stati anche il bersaglio preferito della critica boomer. Al punto che sembrano costruiti apposta, il gruppo che gli appassionati di musica amano odiare.

La sessualità, anzi la fluidità, resta una delle loro armi migliori. In una goffa intervista del Corriere ai tempi della vittoria a Sanremo in due si dichiaravano etero, un altro etero ma pronto a tutto, bisessuale la bassista. Domanda successiva: «Damiano, i ventenni di oggi sono per l’amore libero?». Auguri. Fa bene rileggere oggi l’ironia con la quale Michael Watts (uno dei giornalisti migliori del Melody Maker anni Settanta) commentò lo storico e spettacolare (troppo) coming out di Bowie: «Pensa di essere bisessuale ma non ha molto tempo per il Gay Liberation Front. Non vuole essere alla guida di nessun movimento particolare».

Se devi parlare dei Måneskin con qualche speranza di evitare il trappolone retorico non dire che il rock italiano rinasce con loro. Glissa su questo. Neppure paragonali ai gruppi che mettono in scena – il glam rock anni Settanta, i Led Zeppelin, i Red Hot Chili Peppers – pensando che questo sia di per sé un giudizio senz’appello. Al contrario, chi c’era all’epoca ricorderà che il glam rock segnò la prima grande divisione generazionale e politica in quel campo. Di qua gli Slade, gli Sweet, Marc Bolan ma anche il primo David Bowie (senza troppi complimenti). Odiati dai critici seri. Prodotti per ragazzini. Decadenti. Traditori di classe. Popolari/populisti. Congegni teatrali, piccoli musical ambulanti. Non c’è niente che faccia impazzire la critica rock più di una maschera di sé. Il rock dovrebbe essere sempre vero. Il pop sempre di plastica.

Il teatro è l’aspetto più vertiginoso dei Måneskin, musical di sé stessi. Nella scaletta dei loro concerti si moltiplicano le cover: Beggin’ di Frankie Valli (un tormentone lynchiano anni Settanta, eredità di X Factor), anche i Franz Ferdinand e Billie Eilish. D’altra parte Ziggy Stardust, creatura warholiana, era la maschera di “un cantante di plastica”. Ispirato tra gli altri a Iggy Pop. Lo stesso che cinquant’anni dopo ha duettato con loro in I wanna be your monster, sotto i buoni auspici della stessa casa discografica Sony Universal (sotto gli stessi auspici aveva duettato con Zucchero dieci anni fa).

Maschere e moralismo

I biografi e gli storici mettono assieme l’attrazione di Bowie per le maschere e il musical con il suo percorso buddista e lo svuotamento del sé. Noi avevamo Renato Zero, che ha sempre ufficialmente negato qualsiasi parentela con Bowie che non fosse l’aria dei tempi (ma la casa discografica era la stessa).

Zero era una creatura del Piper fuggita da un set di Fellini, di sé pienissimo. Dopo aver portato le canzoni nei teatrini di Trastevere e in giro per la città con un registratore dentro un pulmino finse che il suo primo disco No mamma no fosse registrato dal vivo (aggiunse gli applausi). Zero scriveva canzoni “contro la droga”, di un moralismo imbarazzante.

Quando Bowie si trasferì a Los Angeles viveva di latte, gauloise nazismo, paranoia e cocaina. Damiano dei Måneskin si è sottoposto a un imbarazzante esame per dimostrare che non aveva preso cocaina. Esiste un’unica foto “vera”, l’unica, che mostra i Måneskin suonare in via del Corso un secolo fa, nella vecchia città barocca svuotata di ogni briciolo di storia.

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