Il populismo della cosiddetta trasparenza ha raggiunto ormai anche il rock’n’roll, che non muore mai perché non si droga. Il cantante dei Måneskin durante la serata trionfale all’Eurovision song contest di Rotterdam, viene colto dalle telecamere in una posizione e un gesto che potrebbero far pensare che sia chinato a sniffare coca; molto rock’n’roll! Ma non è così, si era rotto un bicchiere, come capita a qualsiasi casalinga di Voghera che si rispetti. Ma: baraonda da mezza Europa, francesi in testa.

I Måneskin sono dei drogati, squalificateli, eliminateli, possibilmente incarcerateli a vita e buttate la chiave. Una band di rock’n’roll che si droga, ma dove arriveremo? Di questo passo anche i politici inizieranno a drogarsi? Putiferio, insomma. Non si fa nemmeno in tempo a chiedersi se l’antidoping sia previsto anche per le competizioni canore che il cantante dei Måneskin dice in sequenza: «Siamo contro la droga» e «fateci il test se non ci credete».

Onestà! Onestà! Onestà! Trasparenza! Trasparenza! Trasparenza! Le prove! Lo fa con apparente innocenza, ma grande urgenza; sa che deve subito reagire, deve evitare la pubblica condanna, deve evitare di ricadere nel purgatorio – a volte inferno – dei peccatori, dei moralmente inferiori nel quale la società che abbiamo costruito, o meglio, che abbiamo permesso che costruissero, piazza in un baleno chiunque sia attaccabile per qualsiasi cosa. Siamo il paese che ha cacciato un sindaco di Roma per una questione irrisoria (anzi, inesistente, si è visto poi) di scontrini e multe alla sua utilitaria.

Essere normali

La richiesta dei Måneskin di sottoporsi agli esami per provare che NON SI DROGANO, è la manifestazione di una grave psicopatologia sociale, collettiva e individuale. Una malattia mentale evidentissima: doversi discolpare senza la prova della colpa, e quando suddetta colpa non è chiaro che rilievo abbia.

E se avesse davvero sniffato? E allora? Fatti suoi, e se infrange la legge (naturalmente retrograda e manifestamente a favore della droga) paghi e continui a fare il suo mestiere. Ma la società chiede (soprattutto!) agli sregolati di dimostrare di essere normali, anzi li costringe a offrire continue prove della loro bontà e normalità – la droga, sia mai signora mia! Il rock’n’roll perbenista, quasi christian rock; ci siamo vicini.

Il legame con la vicenda che ha riguardato in settimana anche il cantautore Roberto Angelini è evidente e mostra un ulteriore, drammatico lato della vicenda: chi si erge a santo purissimo e difensore di tutti gli indifesi, non può nemmeno più prendere una multa. Anzi: nemmeno un suo collaboratore può prenderla. Tocca cacciare il collaboratore perché moralmente non all’altezza. La cultura del populismo è viva e vegeta, quella della gogna, suo strumento prediletto, ancor di più.

Occorre tuttavia porre particolare attenzione alle parole che ha pronunciato il cantante dei Måneskin, perché esse sono rivelatrici di una adesione totale a modelli di pensieri reazionari, precedenti al populismo dell’ultimo decennio: «Io sono contro la droga», ha detto. Il lessico dal punto di vista storico è mutuato in maniera perfettamente sovrapponibile a quello della destra reazionaria. È dagli anni ’80 che ci viene posta questa domanda priva di senso: sei contro la droga? Tornano in mente quei tossici che allestivano banchetti posticci e biascicavano la richiesta di una donazione «contro la droga». Avevano capito tutto, loro.

Sei contro la droga – ma che domanda è? No, figurati, adoro sapere che ci sono ragazzini che muoiono di overdose. Il tema, come qualsiasi altro tema importante, non è essere pro o contro il problema, ma, vale la pena ripeterlo, come risolvere il problema. Ovvero prendere atto di una pratica antichissima, che è diventata diffusa e pericolosissima, a causa dell’incapacità di agire in modo sensato rispetto all’esistente anziché volerlo eliminare. Le cose che esistono non si eliminano. Ci si mette in relazione con esse.

Dare il buon esempio

È poi una espressione che chiunque abbia avuto a che fare con le sostanze stupefacenti non userebbe mai: dal consumatore ai tossicodipendenti a chi di loro si occupa. Essere contro la droga è un po’ come essere contro la pioggia. Non puoi essere contro la droga. Puoi batterti affinché le cause socio-economiche che producono la malattia della tossicodipendenza, che è innanzitutto una malattia mentale, vengano rimosse. E quando ormai il danno è fatto, trattare queste persone come pazienti.

Sei contro la dipendenza dalle droghe e dunque sei in favore di quelle persone che a causa di esse sono diventate dei pazienti e non degli esseri immorali. Persone sulle quali oltre che inutile è ingiusto usare il metro di un paradigma morale di umana santità. Sono persone che vanno curate attraverso una cultura, una educazione all’uso delle sostanze stupefacenti. Dire di essere “contro la droga” equivale a qualificarsi come reazionari della peggior specie. Ma perché lo hanno fatto? Lo hanno fatto per evitare la condanna morale da destra e da sinistra.

Ripensiamo al cantautore Angelini che da anni è ospite di una bella trasmissione che ha però le stigmate della superiorità morale della sinistra buona, e perciò Angelini è stato espulso perché reo di avere assunto una persona in nero. A poco è valsa la sua confessione e tantomeno il suo aver pagato la multa. Ma pagare per l’errore non dà il diritto di tornare a vivere, di non dover subire l’ipocrita e retrogrado ostracismo dei moralisti?

Anche questa è una cosa di destra; la pretesa di essere immuni dall’errore, di essere perfetti e “inattaccabili”. A quanto apprendo al cantautore Angelini stanno cancellando addirittura le date del tour estivo. Siamo a un passo dalla crocifissione, traslata da quella solo apparentemente meno violenta che si consuma nelle chiacchiere da bar e nella loro versione global, i social.

I Måneskin avevano la possibilità, in un colpo solo, di essere rock’n’roll, e di dire una cosa sensata sui pericoli connessi all’uso delle sostanze stupefacenti. L’unica risposta possibile all’accusa di avere consumato cocaina avrebbe dovuto essere un fiero sì, soprattutto se così non è stato, e subito dopo il sì un’offerta di sottoporsi al test che provasse quanto cazzo sono rock’n’roll.

L’esito negativo del test sarebbe stato una chiusura situazionista, l’unica possibilità di sfuggire a quest’idea che ci vorrebbe tutti perfetti e immacolati, da destra e ahimè ormai anche da sinistra; l’idea assurda che calciatori, cantanti, star assortite e chiunque abbia visibilità debbano dare il buon esempio, nella società finto-evangelizzata nella quale viviamo e nella quale, esattamente come per le aziende, essere moralmente illibati è una richiesta degli uffici marketing. Per questo i Måneskin si sono incazzati come se li avessero accusati di essere dei violentatori di bambini.

Perché hanno avuto paura di essere esclusi, allontanati, condannati dalle Giorgie Meloni e, ahinoi, magari anche da qualche trasmissione di “sinistra”. Fazio li avrebbe invitati se Damiano avesse davvero pippato sul tavolo? E gli altri programmi che si manifestano come progressisti?

Torna in mente il caso di Morgan, sfruttato da tutti grazie alle sue debolezze e poi cacciato quando tali debolezze – che conoscevamo tutti nel cosiddetto showbiz – son diventate di dominio pubblico.

Il più grande critico della musica vivente, Simon Reynolds, già vent’anni fa diceva di essere stufo di vivere in un mondo in cui i politici ti spaccano i timpani urlando cazzate e le rockstar predicano e fanno del bene. Non dovrebbe essere l’opposto, si chiedeva l’autore inglese? Sì, ma non lo è più da un pezzo.

E il discorso può allargarsi al tema del “woke capital”, ovvero del mostrarsi sempre più inclusivi, progressisti, in definitiva buoni da parte delle aziende. Più grandi sono più sentono la necessità di mostrarsi liberal. La straordinaria campagna di comunicazione di Nike su Kapernick, il giocatore della Nfl estromesso dalla Lega per aver insistito nell’inginocchiarsi durante l’esecuzione dell’inno prima delle partite – un simbolo per il movimento Black lives matter – è un caso di scuola. Kapernick diventa testimonial non-giocatore, il titolo Nike schizza in Borsa, nell’America profonda vengono bruciate le Nike.

Senso di responsabilità di una grande azienda o semplicissima grande operazione di marketing rivolta a una comunità rilevantissima per l’azienda in questione? Non lo sapremo mai. È certo che nel vuoto politico che si è creato dopo la globalizzazione (ingestibile, perché è e non può non essere) le aziende hanno superato le rockstar quanto a necessità di esibire sensibilità sociale. Potrebbe essere una buona notizia. Se non fosse che le aziende, per definizione, vanno dove c’è il profitto. E le rockstar, pure. Delegare a loro le lotte per l’inclusione, i diritti e il progressismo potrebbe rivelarsi un tantino pericoloso.

 

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