Un anno fa, l’Argentina metteva da parte i suoi problemi e le sue ansie per inseguire la terza Coppa del Mondo. Oggi trattiene il respiro, aspettando di capire quanto sarà duro l’anno che verrà. Quante cose possono cambiare in un anno, per chi vive ai margini del planisfero. Siamo sempre la periferia di qualcuno, in fondo, i provinciali. Provincia, d’altronde, è come gli argentini chiamano spesso il vicino Uruguay.

Lo fanno quasi con una smorfia di fastidio, una mueca, dal francese moquer, schernire. Piccola e discreta Svizzera sudamericana sulla sponda meno infame del Rio de la Plata. Stratagemma diplomatico di britannica fattura, incassato tra Argentina e Brasile. Così civili e rispettosi anche nella vita quotidiana, gli uruguagi, anche all’ora di punta, sull’autobus che unisce Montevideo con l’aeroporto di Carrasco: quello in cui Marcelo Bielsa e signora, atterrati in incognito, un po’ spie e un po’ turisti, confortati da tanta calma e tante buone maniere, hanno sentito che quello poteva essere un buon posto dove fermarsi.

Erano 12 anni che Bielsa non allenava in Sudamerica. Quando lo scorso maggio ha accettato la panchina dell’Uruguay, in Argentina hanno fatto un respiro profondo, hanno accennato un sorriso e poi deglutito in silenzio.

Come quando qualcuno, nel mezzo di una conversazione senza importanza – se mai ce ne fossero – vi dice di aver incrociato un vostro vecchio amore. E voi, attraversati da un’ombra, non vi azzardate a chiedere con chi l’hanno visto, quel vostro ex. Al quale, ci mancherebbe, augurate sempre il meglio.

Argentina-Uruguay

Quella tra Marcelo Bielsa e la Selección argentina è la storia di un amore imperfetto e incompiuto. Non un tango, con il suo carico di colpe e rancori, ma uno di quei boleri struggenti, in cui amare significa perdere la ragione e poi dirsi addio. Il paradosso della locura che limita l’amore e al tempo stesso lo rende eterno.

Il dilemma, incomprensibile ai più razionali, del doversi lasciare perché di più non si può amare. «Nosotros, que nos queremos tanto, debemos separarnos, no me preguntes más», cantava il cubano Pedro Junco: «te juro que te adoro, y en nombre de este amor y por tu bien, te digo adiós».

La sfida casalinga del 16 novembre con l’Uruguay era da tempo segnata sui calendari argentini. Immaginate due ex amanti che si rivedono dopo 20 anni, a braccetto con i rispettivi partner, e si scambiano saluti e cortesie più o meno sincere, e reciproci complimenti per i loro successi, il loro essere in forma, anzi in formissima. Marcelo, che bello incontrarti, stai benissimo, ti seguo sempre.

Grazie cara, guarda dove sei arrivata, te lo meriti. E chissà poi se uno di loro avrà ceduto ai rimpianti e alle più ridicole gelosie notturne, una volta spenta la luce. L’esperienza, diceva Ringo Bonavena, è un pettine che la vita ti dà quando sei ormai pelato.

Poco prima del match alla Bombonera di Buenos Aires, il nefasto cronista Juan Carlos Pasman lancia la sua ennesima – errata – provocazione: «Oggi Bielsa viene a difendersi. Il tecnico offensivo, ambizioso, audace, quello del 4-3-3, oggi viene a difendersi». Detto fatto. L’Uruguay ingabbia l’Argentina di Lionel Scaloni, che non perde una partita dall’esordio in Qatar contro l’Arabia Saudita. Più che il risultato, a stupire (e infastidire) è il fútbol fluido e veloce della Celeste, storicamente considerata più incline a menare e a chiudersi che guardarsi allo specchio.

Inedita rivisitazione bielsista della garra charrua: finisce 2 a 0, con Leo Messi che prende per il collo il difensore del Napoli Mathias Olivera, reo di aver simulato una fellatio all’indirizzo di Rodrigo de Paul.

Prevedibili oscenità da clásico rioplatense: una maradoniana madeleine che ci riporta all’ottobre del 2009, quando l’Argentina agguantava la qualificazione al Mondiale 2010 battendo proprio l’Uruguay, a Montevideo, e Diego, in una immortale conferenza stampa, rispondeva in simil maschio modo alle critiche di quello stesso Pasman, oggi colpevole di annunciare il catenaccio di Bielsa.

L’occhio della patria

Il punto in cui due figure così distanti come Bielsa e Maradona possono coincidere, forse, è il rispetto con cui ne parlano gli addetti ai lavori, ex compagni ed ex giocatori. Persino gli scartati, gli esclusi, i nazionali messi da parte, descrivono il Loco come un padre.

Lo fanno i gregari scovati nelle giovanili del Velez Sarsfield come Lucas Castroman (Lazio, Udinese) e Claudio Husain (Napoli), e i giganti come Crespo e Batistuta, mai schierati insieme in quella Selección stellare, incapace di passare la fase a gruppi del Mondiale 2002. Il dolore più grande nella carriera di Marcelo.

La caduta tutt’ora più inspiegabile nella vasta storiografia argentina della sconfitta. Un’eliminazione arrivata nel mezzo di una crisi sociale ed economica senza precedenti, in un’Argentina che, tra l’efedrina di Diego, la convertibilità peso/dollaro e il corralito del ministro Domingo Cavallo, credeva di non avere più nulla ormai da perdere e maledire.

La nazionale più europea d’America, secondo Juan Sasturain, troppo bella per essere sudamericana. Piena di classe e potenza e capelli lunghi e accaniggiati, in contrasto con i diktat estetici del predecessore Daniel Passarella.

Le dimissioni del Kaiser, all’indomani del mondiale di Francia ‘98, avevano precipitato l’arrivo di Bielsa, nel frattempo sbarcato a Barcellona per dirigere l’Espanyol: tra le sue poche panchine catalane, una piccante amichevole d’agosto con la Juve di Lippi, a San Benedetto del Tronto.

Sfogliando l’album albiceleste dal 1978 a oggi, il suo personaggio appare subito atipico, lontano dai soliloqui intellettuali di Menotti, dal pragmatismo radicale di Bilardo, dalla mistica bohémienne del Coco Basile e dalle asprezze castrensi dello stesso Passarella. A volerlo, fu José Pekerman (poi DT al Mondiale 2006), già testimone del suo strampalato piano di ricerca talenti, intrapreso nel 1988 per il Newell’s Old Boys di Rosario: 25.000 km a bordo di una leggendaria Fiat 147 bianca, con la maniglia del conducente rotta, si dice. Per scoprire, tra i tanti, un ragazzone di campagna di nome Pochettino.

«Essere allenati da lui è come andare all’Università»: relegato in panchina al Mondiale 2002 dopo un biennio da titolare, l’ex portiere Germán Burgos, futuro vice del Cholo Simeone, paragonerà il Loco all’eroe patrio José de San Martin, morto in esilio in Francia dopo aver liberato Cile, Argentina e Perù dalla corona spagnola. Uno dei Libertadores a cui è intitolata la famosa Coppa, per intenderci. Senza saperlo, il minaccioso ma bonario Mono Burgos stava pescando nella scatola delle figurine tanto care a Osvaldo Soriano: gli eroi morti in esilio, lontano da casa; le icone argentine adulate in patria solo dopo aver sfondato in Europa, come Carlos Gardel, Borges, Cortázar o Piazzolla. E infine, il club degli artisti, dei pazzi, degli squisiti perdenti vestiti con la stoffa dei sogni. Nel quale, prima o poi, sarebbe entrato anche il buon Marcelo.

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