Arrivo in anticipo all’appuntamento con Marco Bellocchio e dunque decido di scendere al fiume, nonostante il sole sia già quasi solo l’immagine di un desiderio. Marx può aspettare, l’ultimo suo perturbante film, mi ha trascinato in una corrente di stati d’animo contraddittori, dalla rabbia alla dolcezza, dalla vicinanza all’invidia più squallida. Quanto possiamo dimenticarci delle persone che ci amano? Quanto sacrificare alla realizzazione personale? Che utilità ha accorgersi dei nostri errori, addossarceli quando ormai il sacrificio si è consumato? Non è forse un’aggravante? Al fiume sono solo, se si eccettua una giovanissima coppia; lei, formosa, si sta spogliando. Si tufferà? Mi tuffo.

È fredda, la conosco, frequento assiduamente la Val Trebbia. Con pochi amici affittiamo da anni una casupola sperduta sotto una montagna di roccia  verde-marrone, la Pietra Perduca. Ha misteriose vasche perfettamente rettangolari ma risalenti a ben prima dell’età del ferro. L’acqua delle vasche non si esaurisce mai, nemmeno dopo un’estate secca come quella appena passata – memoria? Il freddo del Trebbia mette pace ai miei pensieri, concertandoli in uno, semplice e inafferrabile. È una frase che Bellocchio dice in un suo filmino di famiglia girato nel 1978, Vacanze in Valtrebbia: «Separarsi dal proprio passato è uno dei problemi principali dell’uomo». Forse è per questo che Marx può aspettare prende la forma di una summa del suo cinema. Famiglia, chiesa e morte.

Me la appunto come prima domanda, esco dall’acqua e vedo che la giovane non ha alcuna intenzione di tuffarsi. Si è spogliata per farsi fotografare, in patetiche pose da pin-up. Mi chiedo di cosa non si stanno accorgendo, di cosa non mi sto accorgendo io, quali errori vado costruendo. Giunto al luogo dell’appuntamento – un bar ordinario di fronte all’abbazia che ospita il festival del cinema di Bobbio – mi scordo di quella prima domanda suggerita dal Trebbia. Ci sediamo, io ho una birra, Marco Bellocchio ordina un decaffeinato. In sottofondo una partita di calcio urla da un televisore fuoriscala piazzato alle nostre spalle. Mi rivolgo ai miei appunti, che sembrano già vecchi.

Penso che il suo film sia un’indagine familiare sul concetto della dimenticanza ovvero di tutto ciò di cui non ci accorgiamo mentre viviamo il presente e che forse chi ci sta vicino può aiutarci a trovare – come mostrano i primi piani di sé sorpreso che ha lasciato nel montaggio. Sembra dire: avevo dimenticato, non c’ero davvero.

Però la dimenticanza non era solo relativa al fatto di non ricordare le cose che qualcuno mi ricorda, ma anche e più profondamente al riconoscere che ciò che ha portato alla tragedia del suicidio di mio fratello era allora stato sottovalutato; quindi un difetto di sentimento, di sensibilità e anche di affetto perché se tu ami qualcuno presti attenzione. Il film ha questo cardine. Poi certo c’è la dimenticanza. Questa tragedia è avvenuta nel 1968; l’archeologia della storia! Nel film si riconosce che io non ricordavo e che tutto era non tanto confuso ma manchevole di pezzi di storia. Attraverso l’incrocio delle testimonianze si è ricostruita una storia attraverso non solo i protagonisti, alcuni sono estranei come ad esempio il prete gesuita o i miei figli, che però partecipano a questa indagine, che è un’indagine sulla dimenticanza ma potremmo anche definirla – cosa che ho imparato in analisi – un’indagine sull’annullamento, sul non vedere e quindi sul non sentire. Se io avessi sentito, mi fossi accorto di quanto grande fosse l’angoscia di questo ragazzo… c’è insomma un grave difetto di sentimento.

Lei dunque sposta l’asse dal tempo all’affettività, una dimensione atemporale, o meglio un tempo interiore. Il riferimento al fatto che i suoi figli abbiano contribuito a ricostruire una vicenda che non hanno vissuto dice che il film è una ricostruzione affettiva e non la ricerca di una verità storica o di una memoria condivisa.

Il peso del film e forse anche il suo carattere e la sua originalità sono basate su un movimento che è prevalentemente un movimento sentimentale, nel quale si parla con dolore della freddezza in un modo che freddo non è. Si parla dello stupore, della sofferenza, del dolore e anche dei sensi di colpa che si sono naturalmente trasformati perché al tempo il senso di colpa aveva portato a coprire e a nascondere. Tutta la recita che è stata fatta dai fratelli per coprire la tragedia alla madre era il contrario dello svelamento, era il nascondere. Dunque il film va nella direzione opposta all’accaduto, quella del rivelare e dello scoprire.

La reazione di sua madre quando scopre il corpo di suo fratello, che si è chiaramente impiccato, sembra davvero un rimosso in tempo reale, quando il trauma è inconcepibile arriviamo a negare l’evidenza.

D’accordo ma intendiamoci, c’è anche un’aggravante; il fatto che noi, ciascuno a suo modo, per sopportare l’insopportabile abbiamo quasi esagerato la disperazione di mia madre. Dice mio fratello Piergiorgio che lei dopo aveva capito perfettamente la gravità di questo qualcosa che era ormai irrimediabile: quando per esempio dice che lei non sale al cimitero a visitare la sua tomba perché pensa che il figlio ce l’abbia con lei: «Lo ha fatto contro di me» dice, intuendo una serie di cose. La nostra grande recita, con ruoli diversi, era un tentativo di attenuazione della disperazione di mia madre che tuttavia secondo me non ha sortito alcun effetto.

Non ha temuto che questo suo film potesse essere inutile o addirittura un’aggravante – citando la parola che ha usato prima – e non una ricostruzione affettiva? Anche il gesuita le dice che tutto ciò che doveva o poteva farsi perdonare lo aveva già messo nei suoi film, che lui li ha visti come se fossero la grata di un confessionale e che da parte sua l’aveva già assolta…

La sua interpretazione io l’ho conservata perché mi sembrava avesse una potenza cattolica che poteva arricchire il film. Certamente lui ribalta i piani; usa la parola cristiana «amore»: dice «tutta la recita che voi avete fatto a me svela non soltanto l’annullamento ma anche un sentimento di amore verso la madre» e poi fa l’esempio di Cristo e della Madonna, usa i suoi modelli, però mi ha colpito il fatto che secondo lui mia madre abbia agito in quel modo per eccesso di amore.

Tutto il suo cinema è stato in qualche modo un tentativo di protesta – prima ideologica poi più esistenziale – contro due istituzioni fondamentali: la famiglia – sacra famiglia, verrebbe da dire – e la chiesa cattolica. Penso ai film citati nel suo documentario: da I pugni in tasca, a Gli Occhi, la bocca, fino a L’ora di religione. Temi che trovano un coronamento in questo film, rimanendo tuttavia inesorabilmente aperti.

La formazione cattolica e la famiglia sono stati due pilastri di tutta la mia primissima infanzia e della mia educazione; una cosa non era separata dall’altra. Poi io pur frequentando un collegio cattolico mi sono progressivamente separato dalla chiesa cattolica. Il discorso sulla famiglia invece è un combattimento aperto. Lei ha citato due film che sintetizzano questo concetto, cioè I pugni in tasca, in cui c’è una dimensione anarchica contro la famiglia che culmina nell’assassinio della madre e poi L’ora di religione, che è un film che ripercorre i temi de I pugni in tasca perché elimina la dimensione distruttiva, persino cripto-nazista de I pugni in tasca per ricercare, sia pure nell’angoscia, una propria libertà. E anche lì c’è l’assassino, ma i conti tornano. Il nostro protagonista lo va a trovare in manicomio; il gesto rivoluzionario e distruttivo de I pugni in tasca non può che portare all’autodistruzione, al manicomio, è la rabbia infinita di uno sconfitto che bestemmia contro i valori cui era stato educato.

La morte sembra un orribile elemento rivelatore dell’essenza della famiglia. E naturalmente anche questo film va in questa direzione. Penso sia una sua cifra di molti dei suoi lavori.

Ne I pugni in tasca il rapporto della morte è con la giovinezza, con l’estrema giovinezza; dunque è della morte degli altri che si parla. Per regolare la mia libertà, la mia vita sono obbligato a sopprimere qualcun altro – nel caso de I pugni in tasca la madre cieca e il fratello demente. Nel senso che mi impediscono di essere ciò che vorrei essere. Ma per esempio ne I pugni in tasca questo voleva dire essere un padrone all’interno di una famiglia malata. In Marx può aspettare c’è la morte reale, quella di mio fratello suicida. Dico la verità – sono ormai abbastanza anziano per dirla – non ho mai finora pensato a concludere così la mia vita; anzi mi riconosco una certa energia e una certa vitalità, la voglia di fare e di continuare a fare. Però certamente o la morte è un essere circondati da fantasmi, da morti viventi oppure è quella vera che è un dato di realtà implacabile. Io non tornavo volentieri a Bobbio perché ogni volta che tornavo mi dicevano «guarda quello è morto, quell’altro pure». Con tanti miei coetanei lo si diceva anche scherzando, ma non ci sono più oppure sono talmente malandati che è come se fossero morti.

Le faccio una domanda che magari la fa incazzare. Lei è l’ultimo grande regista della generazione che ha cominciato a fare cinema negli anni Sessanta.

Ma può pensarlo lei, io non ci penso.

Rifiuta il ruolo di maestro? La chiamano tutti così…

Ma sì, le prime volte dicevo lascia perdere poi mi son stufato… però è chiaro, finché la mente funziona… ma non solo quello, perché molti vanno in pensione con la mente perfettamente funzionante solo perché non hanno più voglia. Io vorrei fare; è chiaro che mi rendo conto che il mondo, la realtà, il presente e il futuro sono delle generazioni più giovani. Certamente mi ritirerei se sentissi di voler correre dietro ai giovani o scimmiottarli, questo mai! Poi è vero, ci sono tanti miei coetanei che non ci sono più, questo è un fatto, che ci si può fare? Scola, Rosi, i grandi maestri non ci sono più. Sopravvive ancora Citto Maselli che verrà festeggiato se non sbaglio a Venezia. È vero, ci si difendeva insieme, nel senso che c’era tutta una generazione prima di noi con la quale dovevamo avere a che fare… ma Scola è morto e non c’è niente da fare.

Visto che siamo entrati in un discorso generazionale le devo confessare che alla sua generazione invidio la libertà e anche un certo egoismo, quando parlavamo di dimenticanza, di assenza, ecco mi pare derivassero da una forza e una vitalità che lei ancora mi comunica…

È chiaro che c’erano delle forze trascinanti più chiare; la politica per esempio, o meglio un certo romanticismo politico. Forze che oggi paiono inesistenti o forse sotterranee. Ma anche la mia generazione ha dovuto confrontarsi con i temi esistenziali che lei ha citato, li abbiamo avuti anche noi, però certamente c’era una spinta che adesso è riconoscibile più singolarmente mentre allora c’era una dimensione più collettiva – poi non so, magari mi sfugge qualcosa…

Beh, fin dal titolo Marx può aspettare, questo suo film è un manifesto anti-ideologico. È ben visibile l’accecamento che procurava rispetto alla dimensione privata e al conseguente sacrificio degli affetti…

Sono tre parole che furono dette da mio fratello e che quindi hanno lavorato molto dentro di me… ognuno parla di sé stesso ma sicuramente l’ideologia, l’idea politica, il discorso sul cambiamento, sulla trasformazione radicale sia in senso politico e poi in senso psicoanalitico è qualcosa che ha segnato molto la mia vita; non dico unicamente la mia ma sicuramente la mia. Fare i conti con ciò in cui uno credeva poteva significare rinunciare a molte altre cose.

La figura di sua sorella Letizia spicca per il suo spessore romanzesco, verrebbe da immaginare un suo monologo interiore, lungo cinquant’anni. La sua lucida innocenza e la capacità di andare al punto emotivo delle cose, come nel sogno di beatitudine su suo fratello appena morto, un momento di cinema – o romanzo – in purezza, mi fa pensare al Tolstoj di Resurrezione.

Uno può chiamarlo documentario o cinema, non è importante. Questi sono film che fermentano e crescono se ci sono persone come mia sorella, che diventano personaggi. Dicono cose vere attraverso immagini fantastiche. Nel film sono molto preziose queste aperture assolutamente impreviste, invenzioni nate per conto loro.

Il film è stato accolto come estremamente emozionante, anche se a mio parere può anche essere visto come un tentativo di studio dall’esterno, e dunque con un certo tasso di necessaria freddezza, di ciò che è per definizione interno, ovvero la sua soggettività.

È stato possibile avendo del tempo. Il tempo è stato molto importante perché questo film non era il film che pensavo di fare. È un film fatto a pezzi, senza un’idea precisa, addirittura ero partito dal fatto che c’erano tre compleanni di miei parenti nel mese di dicembre e poi, come racconto all’inizio del film, il personaggio di Camillo si è in qualche modo imposto e allora ho cominciato a lavorare in quella direzione, ma sempre senza un piano. Poi un po’ alla volta la forma del film si è definita. Un passaggio importante è stato la rinuncia alla finzione; a un certo punto avevo in mente di girare scene di finzione, ho deciso di no dopo un po’ ed è stato giusto fare così. Anche l’inserimento di tutta una serie di frammenti dei miei film ha avuto bisogno di un po’ di tempo, non sono state cose immediate; mi sono ricordato questa o quella immagine o scena e abbiamo provato a inserirle. Poi arrivata la musica straordinaria di Ezio Bosso e il film si è compiuto.

Nel suo film c’è anche un assassinio che non è stato notato. Lei in questo film uccide suo padre; di lui si parla sul letto di morte e si descrive il funerale…

È una separazione dal padre, non un assassinio. Chi si propone a me come padre non lo sopporto, per esempio quei collaboratori che hanno un atteggiamento un po’ paternalista… però al tempo stesso devo dire che quando mio padre morì – di malattia – io sottovalutai interamente il peso di quella di quella perdita; l’annullai, vado avanti mi dissi e invece… Non a caso ho dedicato il film Buongiorno notte a mio padre perché proprio facendo Buongiorno notte vidi nella figura di questo pover’uomo di Aldo Moro una versione di mio padre, come se avessi intuito solo allora che non era soltanto un borghese campagnolo seppur avvocato di successo, ma era qualcosa di più, era qualcosa di più, e che quindi fu una vera perdita. È anche vero che la mia separazione dal padre era sicuramente già avvenuta perché io in qualche modo nel mio lavoro sono andato contro mio padre. Ma la vita è fatta di stupore e di sorpresa, del dire «non me ne ero accorto, non l’avevo capito». Mi fu detto all’ultimo momento che mio padre stava molto male e non realizzai quanto fosse pesante la sua perdita.

Se capissimo tutte queste cose quando accadono saremmo qualcosa più che uomini. E comunque vorrei formalmente accusarla di aver fatto un film edificante.

Edificante? Ahahaha.

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