Donne e cinema. Non soltanto attrici, registe, sceneggiatrici, costumiste o star, ma anche produttrici. Come Marina Cicogna, 87 anni, la prima, storica produttrice cinematografica italiana. Il che significa aver scelto di produrre film ma anche rinunciarci troppo presto.

Dopo aver vinto nel 1971 l’Oscar per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, la contessa Cicogna non riesce a trattare con gli americani per opere come Il Conformista, Ultimo tango a Parigi, Il portiere di notte. Lo scoramento che ne deriva contribuisce al suo ritiro dall’Euro International Film. Anche di questo tratta l’originale e ironico documentario di Andrea Bettinetti Marina Cicogna. La vita e tutto il resto, prodotto da Kama Productions, presentato alla Festa del Cinema di Roma e che sarà prossimamente distribuito nelle sale. 

Libertà come scelta

Nella breve ma eccezionale parabola della contessa Cicogna, l’essere o il voler essere produttrice cinematografica coincide anche con una visione del mondo. I suoi film ricalcano la sua personalità e caratura intellettuale.

Produce Teorema di Pasolini, Uomini contro di Rosi, I cannibali della Cavani, La classe operaia va in paradiso di Petri. Produce Metti una sera a cena di Patroni Griffi e distribuisce Bella di giorno di Luis Buñuel (per cui vince il Leone d’Oro a Venezia). Due film in cui al centro c’è una femminilità bizzarra, l’erotismo della donna e la libertà come scelta.

Lo scegliere la libertà è per Cicogna non solo il fondamento della sua vita, del suo lavoro. Ma anche la chiave di lettura per capire cosa era tra gli anni Sessanta e Settanta il cinema e cosa è diventato. Da un’ampia offerta di cinema autorale e medio (il genere western, poliziesco, giallo, comico, horror, erotico) al prevalere del settore della commedia e di alcuni pochi autori.

Così l’ex produttrice spiega il perché non c’è più “quel grande cinema”. Fra le cause l’autoreferenzialità dei registi che non ascoltano i produttori. I produttori che sono dei saggi consiglieri. Guidano gli artisti, capiscono come valorizzarli al meglio. I produttori che spesso sono anche dei visionari. Così distribuisce Helga, il primo film con un parto vero in diretta.

Cicogna è stata un esempio unico di produttrice. Non le interessa il messaggio “politico” dei copioni, la “morale”, ma le storie. «La qualità altissima del prodotto e con un costo non elevato». Fedele a sé stessa, a metà degli anni Settanta si ritira dall’industria perché quello che le veniva proposto «non era il suo cinema».

Universo maschile

Cicogna è stata la pioniera di un lavoro esercitato ancora oggi perlopiù da uomini. Ma è da capire se questo dipende da una discriminazione di genere o da altri motivi. «Alcune importanti produttrici (italiane e straniere) declinano inviti a parlare sull’argomento, ritenendosi più dei “buoni produttori” che delle “donne di successo”», dichiara Elisabetta Badolisani che si è occupata di produzione per lo studio collettivo Gap & Ciak del programma Dea (Donne nell’industria dell’audiovisivo).

Ufficiosamente, secondo Badolisani le società di produzione cinematografica fondate da almeno una produttrice in Italia e all’estero sono il 20-30 per cento del totale. Ma la risposta definitiva è nascosta nel dato aggregato del Rapporto imprenditoria femminile di Unioncamere. Per capire il motivo di un minor numero di produttrici bisogna considerare che si tratta di un ambito professionale particolare, anche rispetto al management. «Per fondare una società bisogna avere spirito imprenditoriale e propensione al rischio. Non è una cosa da tutti, donne o uomini che siano. Le società lavorano anche anni a progetti che poi magari non vengono realizzati».

Oltre a una propensione manageriale, un’aspirante produttrice cinematografica deve avere un fondo economico di partenza. «Il capitale sociale minimo richiesto per accedere a molte linee di finanziamento del ministero della Cultura è di 40mila euro. L’accesso al credito è particolarmente complesso. Non sono quindi una attività e una professione che si possano improvvisare».

Spesso si decide di aprire una casa di produzione per motivazioni artistiche. È il caso, ad esempio, della regista Monica Repetto che nel 2002 fonda con Pietro Balla Deriva Film. «Per trattare certi temi con maggiore libertà e per velocizzare i tempi di realizzazione. Ufficialmente non mi hanno mai detto che non sceglievano quel lavoro perché ero donna. Ma oggettivamente è un universo maschile. Solo che non me sono mai veramente resa conto. C’è quindi per le donne anche un problema di inconsapevolezza. Nel mondo della produzione, soprattutto nelle produzioni di potere, le donne sono di meno. Nei posti dove si guadagna di più ci sono uomini».

L’altro aspetto sollevato da Repetto è nella difficoltà a essere documentariste indipendenti e produttrici perché la nuova legge cinema tratta con gli stessi oneri burocratici film con budget molto diversi. 

In altri casi essere produttrici significa impegno civile, una missione sociale. Si veda Antonella Di Nocera con Parallelo 41. A Ponticelli, periferia di Napoli infestata dalla camorra, dirige dagli anni Novanta un atelier di cinema del reale che ha prodotto moltissimi giovani autori e autrici provenienti da tutta Italia, con importanti riconoscimenti internazionali. L’obiettivo è di produrre un cinema indipendente, aiutandolo ad arrivare a un ampio pubblico. Ora sta lavorando a un atelier destinato a donne autrici under 30 per produrre fiction. «Il gender gap è un dato di fatto. Le produttrici sono molto poche, e si dovrebbe aumentare anche l’offerta formativa per la produzione».

Marta Donzelli co-fondatrice della Vivo Film, una tra le più raffinate e importanti case di produzione italiane, è stata da poco nominata dal ministro Dario Franceschini presidente del Centro sperimentale di cinematografia. Un ruolo che sta esercitando guardando anche al panorama internazionale. La Vivo Film ha prodotto svariati film diretti da donne fra cui Laura Bispuri, Susanna Nicchiarelli, e anche autrici meno note. Ma Donzelli tiene a specificare che: «Ciò è accaduto per progetti e profili che ci convincevano. Di certo abbiamo avuto una sensibilità aperta a storie diverse. E magari per questo molte donne sono state incoraggiate a proporsi a noi. In generale i film diretti da donne sono il 25 per cento, quelli diretti da uomini il 75 per cento. Alcune professioni per le donne nel cinema sono una rarità». 

Per Francesca Cima, premio Oscar per La grande bellezza di Paolo Sorrentino e produttrice dei più importanti registi italiani: «La Indigo Film ha nel suo organico una maggioranza di donne. Ma ci sono ruoli con prevalenza maschile, perché magari più faticosi. E questo riguarda tutti i mestieri. Chiaramente è molto difficile fare certi lavori ed essere madre. Le cose un po’ stanno cambiando, ma il problema è culturale». Si può anche osservare che il cinema in quanto impresa collettiva contempla tanti ruoli alcuni dei quali hanno una netta prevalenza femminile.

Imprenditoria femminile

Sulle reali possibilità di potersi approcciare non solo a lavori creativi (regia, sceneggiatura), ma anche a quello della produzione cinematografica, Badolisani aggiunge: «La buona notizia è che uno dei temi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) sarà proprio l’imprenditoria femminile. Già oggi esistono diversi strumenti che vogliono sostenere e accompagnare tali attività. Mi chiedo quanto le produttrici cinematografiche li conoscano. Sarebbe importante finalmente attivare collaborazioni e sinergie con imprenditrici di altri settori, per portare avanti battaglie comuni. Perché in fondo, al di là della natura culturale del prodotto film, un’impresa è sempre un’impresa». 
Di certo una nuova Marina Cicogna e un rilancio maggiore del cinema italiano sul piano internazionale, sono possibili con una sensibilità e sostegno verso l’autorialità. Sono necessarie ulteriori imprese che aiutino autrici e autori. Ovvero coloro che hanno l’urgenza di fare film  che possano entrare nell’immaginario collettivo. Come dice la contessa: «Fare cinema è una scelta».

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