Avrei potuto, come fanno di solito gli universitari europei, proporre una conclusione neutra e distaccata: una sintesi scolastica, farcita di critiche e sfumature. Avrei potuto, in sostanza, dimostrare che non aderisco in toto alle idee, a volte scandalose, che sono state sviluppate nelle pagine precedenti, lasciando intendere con una certa saccenza che la realtà è più complessa di queste faccende da neri. E che è arrivato il momento di offrire una visione delle cose più contrastata.

Tuttavia sono convinto che la verità è imparentata con la sottigliezza, ovvero con l’estremismo dell’argomentazione, ma che è estranea alla sfumatura, ovvero alla viltà del concetto che s’impaurisce dinnanzi alle conseguenze della propria dimostrazione. La tendenza pessimista della teoria africana americana contemporanea non può essere di certo al di sopra della critica. Ma questa critica si limita, per così dire, a essere vibrante: invalida o si scandalizza più di quanto faccia lo sforzo di capire. Lo scopo di questo volume era di offrire alla discussione alcune di queste tesi e alcuni dei loro effetti, senza eufemismi e senza scappatoie.

Dimenticare sé stesso

La premessa imprescindibile dei pensieri politici contemporanei che hanno la pretesa di essere rivoluzionari, progressisti o egualitari è che i neri devono partire dal dimenticarsi di loro stessi. È consuetudine, nelle letture contemporanee della tradizione radicale nera, evidenziare soprattutto, o addirittura esclusivamente, quello che ha meno legami con i neri stessi e i loro interessi politici, attraverso un’insistenza sproporzionata sulle azioni di filantropia o le politiche di alleanza.

La lettura contemporanea del bilancio politico delle Black Panthers, fino all’incresciosa produzione hollywoodiana Judas and the Black Messiah, è emblematica di questo approccio. Nei circoli di sinistra, rimanda spesso a una nostalgia del terzomondismo del tutto priva di un bilancio critico. Eppure, come scrive il sociologo britannico Kehinde Andrew: «Il movimento terzomondista offriva la promessa di una resistenza unificata all’imperialismo dai luoghi più bui del pianeta. (...) Non radicando questa politica nella nerezza, il movimento non ha mai protetto gli interessi dei neri del continente e della diaspora. Il rifiuto aperto del razzialismo è anche uno dei motivi per i quali il movimento è stato rinchiuso nello stato-nazione coloniale».

Coalizione, alleanza e solidarietà non vengono più considerati come strumenti per mettere la potenza politica nera al servizio di cause giuste e della dignità umana tutta. Anzi, sono oggi le parole in codice di un’ingiunzione all’auto-annientamento di qualunque slancio di organizzazione nera, particolarmente pregnante nelle critiche rivolte all’afropessimismo dalla sinistra. In una simile congiuntura intellettuale, non c’è da sorprendersi che la britannica Annie Olaloku-Teriba sia tentata di concludere un articolo accusatorio diretto contro questa teoria scrivendo che «il meglio che questa politica possa offrirci è una lotta senza scopo». È ammesso e inteso che i neri, in quanto gruppo d’interesse, non esistono o non meritano di essere al centro delle nostre preoccupazioni.

Negrofobia

Viviamo in un mondo in cui i cinque paesi più poveri in quanto a Pil per abitante sono in Africa nera; un mondo in cui il paese più povero dell’emisfero ovest si chiama Haiti; un mondo in cui i tassi di incarcerazione degli uomini neri restano sproporzionati in tutti i paesi eredi dello schiavismo negriero; un mondo in cui l’aspettativa di vita nera è la più bassa di tutte; un mondo in cui le caricature e le rappresentazioni umilianti degli africani costituiscono un codice culturale così godurioso che si è diffuso, sotto forme estremamente virulente, fino all’Europa centrale e orientale o all’Asia, ovvero fino a luoghi privi di storia colonialista o schiavista negrofoba. Sono solo alcuni degli innumerevoli esempi della persistenza della negrofobia che vengono citati in questo volume.

Però, di fronte a questo spettacolo, la critica dell’afropessimismo crede di avere buoni motivi per scrivere che «la fragilità delle gerarchie razziali è inerente al progetto del razzialismo» e che «la “nerezza” della categoria dello schiavo era sia contingente sia instabile».

Il costruttivismo della filosofia del Ventesimo secolo viene oggi confuso con la struttura stessa della realtà. Basta quindi scrivere di un fatto storico che è «fragile», «costruito» o «instabile» per credere, a dispetto di qualunque verità empirica, di accedere senza mediazione al nocciolo segreto del reale. Così come gli approcci classici del razzismo non interpretano l’anti nerezza a partire dalla perpetuazione dello stato critico della grande massa dei neri nel mondo, ma soltanto a partire da un insieme di discorsi cangianti e di giochi linguistici in cui ci si diverte a evidenziare evoluzioni e contraddizioni, la negrofobia sembra priva di unità, di coerenza e di resistenza.

La costanza morbosa dello schiacciamento dei neri in Africa o in diaspora viene allora definita come uno sfortunato concorso di circostanze, legato solo alle vicissitudini dello sviluppo del sistema capitalista. (...) L’esistenza nera è definita da un’abiezione non riducibile alle tematiche dello sfruttamento e del lavoro. I Black Male Studies di Tommy Curry come l’afropessimismo di Frank Wilderson e Jared Sexton convergono per significare che i neri sono profondamente segnati dal fatto di essere stati e di rimanere, posizionati come i rifiuti, i giocattoli e gli sfogatoi dell’economia libidica e dell’immaginario bianchi.

Al contrario, il quadro di riferimento marxista implica una commensurabilità tra, da un lato, quelle e quelli che sono sfruttati e, dall’altro, quelle e quelli che sono, per di più, oggetti di genocidio, di esproprio e di disumanizzazione. Il marxismo non è attrezzato per pensare la questione nera, situata al convergere di questi fenomeni. E non perché Marx sarebbe stato prigioniero degli stereotipi razzisti del suo tempo (cosa irrilevante), ma perché la sua teoria economica non è semplicemente stata concepita per descrivere e capire la negrofobia e le dinamiche di lotta che genera. Pretendere dal marxismo che illumini la questione nera con interpretazioni decisive equivale a chiedere alla geologia di spiegarci come funziona il cervello umano.

Capitalismo razziale

Eppure, numerose critiche ai pessimismi neri contemporanei si basano sul postulato che il capitalismo sarebbe l’unico fenomeno globalmente strutturante e che la razza e la nerezza non sono altro che dei piccoli adattamenti locali e revocabili. Appare ovvio che il pensiero “progressista” nero contemporaneo si è chiuso in categorie e nomi propri ereditati dalle scienze sociali europee che non aiutano nella comprensione dell’anti nerezza, ma permettono ai suoi fautori di salvaguardare uno scambio cordiale e benevolo con il pensiero bianco.

La fortuna del concetto-macedonia di “capitalismo razziale” è quindi in gran parte dovuta alla tentazione di sostituire alla presa in considerazione politica delle singolarità e delle particolarità l’apertura di un buffet intersezionale “all you can eat”, che dovrebbe accontentare chiunque.

È così che il marxismo ha fagocitato la questione nera, passandola sotto le forche caudine delle sue categorie inadeguate. Si trattava di riconoscere in questo modo l’importanza della negrofobia per gli attivisti e gli intellettuali di ascendenza africana, senza tuttavia farne l’oggetto di una riflessione autonoma che avrebbe richiesto l’elaborazione di nuovi strumenti di analisi e di nuovi concetti. (...)

Si è cercato di far sì che i pensieri pessimisti neri contemporanei fossero il tradimento della tradizione radicale nera tenendone solo la parte compatibile con i progressismi non neri, che fossero marxisti, terzomondisti, liberali o postmoderni. Tuttavia i contributi dell’afropessimismo e dei Black Male Studies per il radicalismo nero superano di gran lunga le loro debolezze. Queste dottrine non ci invitano a rompere con l’eredità politica nera, ma piuttosto a rivisitarla partendo dalla doppia constatazione da cui è originariamente nata: da un lato, che una grossa fetta delle società bianche provano nei confronti delle popolazioni africane un’ostilità insormontabile e, dall’altro, che questa ostilità si è cristallizzata perfino nella loro teoria politica e nella loro filosofia, i cui principi, orientamenti e strategie non possono essere prese in prestito senza una profonda trasformazione, guidata dagli interessi neri. Ma, l’essenziale sarà, più di ogni altra cosa, trovare una nuova via.

La questione della classe

Sarebbe oggi criminale o sconsiderato fare propria l’apologia del capitalismo formulata da Marcus Garvey nella prima metà del XX secolo. Ma la sua critica del comunismo bianco rimane pertinente: «I più grandi nemici del negro sono tra quelli che professano in modo ipocrita l’amore e la solidarietà mentre, nel fondo del loro cuore, lo disprezzano e lo odiano. Questi pseudo-filantropi e le loro organizzazioni uccidono il negro». La proposta di un comunismo nero mira a formulare un progetto di società fondato principalmente sulla dignità nera, a partire dalle storie, esperienze e filosofie degli africani e afrodiscendenti, per essere il più vicino possibile ai loro interessi.

Ci vorrà, ad esempio, una nuova critica della proprietà privata, simile a quella delineata da Rinaldo Walcott, facendo valere la pertinenza dell’abolizionismo anti-schiavista per il nostro presente: «L’abolizione ha finito per occupare il posto che la promessa del comunismo ha avuto per molti di noi. (...) Non vogliamo solo abolire la polizia e le corti di giustizia, vogliamo abolire tutto» . Al contrario di Walcott, penso possa essere interessante non ritenere la nozione di comunismo semplicemente sorpassata. Ma ha ragione nel cercare di ancorare una nuova critica radicale della proprietà alle esperienze comuni della diaspora e non solo ai meccanismi dello sfruttamento descritti da Marx: «La precarietà generata dalla cancellazione di servizi sociali chiave da parte del governo fa parte dello stesso processo di criminalizzazione. È in queste condizioni che l’abolizione della proprietà equivale a interrompere, e quindi a cambiare le condizioni e le priorità fondamentali del nostro futuro collettivo» .

Così come la lotta di classe non può sfociare nella solidarietà con gli operai fascisti, il fatto che il comunismo nero definisca la disumanizzazione nera come punto fondamentale dal quale partire per fondare una politica africana e diasporica non comporta nessuna mansuetudine nei confronti della lumpenborghesia nera, dei governi neocolonialisti africani e degli altri nemici delle masse nere.

Per ribaltare una popolare formula di Stuart Hall, «la classe è la modalità secondo la quale la razza è vissuta» – poiché la razza detta l’appartenenza o meno all’umanità, e la classe descrive le condizioni sociali di questa (non) appartenenza. In altri termini, la questione della classe è decisiva all’interno del perimetro della nerezza. Kwame Nkrumah o Julius Nyerere hanno ampiamente evidenziato le tradizioni comunaliste africane per legittimare i loro progetti di socialismo africano. Ma se l’operazione fu per lo più fallimentare, è anche perché questi socialismi sottovalutarono la stratificazione di classe di paesi da poco indipendenti. Il bilancio equilibrato di queste esperienze non potrebbe concludere che bisogna buttare via i socialismi africani nella specificità della loro formulazione, ma che bisogna invece spingersi oltre, chiedendo a noi stessi ancora di più. Spetta al comunismo nero rileggere queste esperienze con un occhio critico per potere offrire nuovi progetti, nuove strategie e nuove dottrine.

La distruzione dell’ordine attuale necessita di rifondare una politica radicale a partire dalla constatazione che la collaborazione con dei gruppi che non considerano i neri come umani a pieno titolo non deve essere alla base del pensiero e della politica neri. Innumerevoli contorsioni furono, sono e saranno ancora fatte attraverso la storia per eludere le conseguenze di questa semplice verità. Confondendo gli interessi del cittadino o del proletario con quello del negro, liberismo e marxismo costituiscono due seri ostacoli sulla strada di un’indipendenza intellettuale e politica dei neri nel mondo.

Come sottolineava Steve Biko, la forza del razzismo bianco «si dispiega come una totalità inquietante, che plasma sia l’offensiva che guida sia la difesa che gli opponiamo». Qualunque programma politico che pone la questione nera in secondo piano è parte di questa soffocante totalità. Il suo diniego richiede quindi che i neri abbraccino la loro peculiarità, a partire dallo smettere di credersi umani tra gli umani in un mondo che non li tratta come tali. Ma soprattutto, passa attraverso ciò che Biko chiama la «politica di potenza» e che costituisce il catalizzatore del comunismo nero.

Con lucidità, Biko aveva capito che l’unico modo per lottare contro l’anti nerezza non consisteva nel rifuggire dalla condizione nera in una qualunque coalizione variopinta, ovvero pluri negrofoba, ma invece, nel conferirle tutta la potenza possibile. O, per dirlo con le parole di Richard Wright, nel militarizzarla. Si obietterà forse che la nerezza di Biko era anche aperta alle persone di colore che non sono di ascendenza africana. Perfino il gruppo armato di azione diretta Black Libération Army negli Stati Uniti degli anni 1970 aveva un significativo contingente di bianchi. Perché non congratularsene?

Infatti quello che conta è la centralità non discutibile del nome nero, delle vite e degli interessi neri in seno a questo attivismo e a questo pensiero.

È il posizionamento a partire dal quale un amore profondo per i propri simili e un autentico odio del mondo diventano ovvi – le due premesse all’abolizione dell’atroce totalità che si dispiega sotto i nostri occhi. Il pessimismo si sveglia all’alba della dignità nera.

Questo brano è tratto dal libro Nerezza, genere, classe e pessimismo nel pensiero africano americano del XXI secolo, Parigi, Divergences, in uscita a febbraio 2022.

Norman Ajari, filosofo e attivista franco-americano, membro del comitato esecutivo della Fondazione Frantz-Fanon, insegna filosofia alla Villanova University di Philadelphia. Autore di La Dignité ou la mort: éthique et politique de la race (La Découverte), Ajari offre un’analisi critica implacabile della tradizione filosofica europea, riconnettendosi con le storie rimosse del pensiero radicale nero, le rivolte degli schiavi, la morte vissuta dai gruppi subalterni, gli usi rivoluzionari del cristianesimo in nord e sud America.

Questa sera alle 17 Ajari sarà a Roma per un incontro pubblico all’interno del festival di arti perfomative Short Theatre, presso il WeGil. Titolo dell’incontro Black Dignity and Black Pessimism. Per Ajari, nella storia del pensiero politico nero, il pessimismo non è quasi mai attribuito alle persone nere, ma semmai alle comunità bianche e alla loro capacità di superare le ostilità nei confronti di quelle nere. E se questi ideali progressisti e programmi politici riformisti non fossero altro che evoluzioni e adattamenti del razzismo sistemico?

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