L’altra sera, coricatomi a letto, finivo lo spedito libercolo del sommo Werner Herzog appena uscito per Feltrinelli, Il crepuscolo del mondo, e mi annotavo questa frasetta piazzata in fondo: «Dove inizia ciò che è tangibile, reale, e dove comincia il ricordo che ne conserviamo?». E un altro passaggio che veniva subito dopo: «I milioni di passi compiuti lo avevano convinto che il presente non esisteva, non poteva esistere. Ogni suo passo era già il passato, e ogni nuovo passo il futuro. […] Dov’era il presente?».

Avevo appena visto il nuovo Matrix, sottotitolo Resurrections, arriva nelle sale italiane il 1° gennaio prossimo, e dunque tutto mi parlava di quella roba lì, della filosofia spicciola e però bellissima che ha cambiato la sci-fi moderna, e non solo quella.

(In realtà la stessa cosa era successa, profeticamente, pure prima del film. Ho mangiato una pizza in un posto in cui la pizza te la puoi comporre da solo – alla fine ti prendi comunque una margherita con la bufala, ma oggi tutto è experience, e vuoi mettere poter vendere l’experience? – e sui piatti di quel posto c’era scritto «Fai le tue scelte», che significava semplicemente che, volendo, potevi aggiungerci i carciofini. Ma io volevo preventivamente convincermi che Matrix avesse condizionato per sempre il costume di tutti noi, anche delle pizzerie. Chiusa parentesi).

Il libercolo di Herzog racconta di Hiroo Onoda, soldato giapponese che, alla fine della seconda guerra mondiale, si ritrova confinato su un’isola delle Filippine che non smette di difendere: crede che il conflitto con gli americani non sia ancora finito. Non c’è nulla di reale, ma tutto è tangibile: è la sua guerra, e lui continua a combatterla.

Fuori dal tempo

All’inizio di Matrix Resurrections ritroviamo Keanu Reeves, cioè Neo, che però ora si chiama Thomas Anderson, designer di videogiochi. Il suo videogioco più famoso si chiama proprio The Matrix, ora che i tempi son cambiati (e i fratelli Andy e Larry Wachowski sono diventati le sorelle Lana e Lilly Wachowski) sta lavorando a un gioco di nome Binary.

Questa natura “meta”, e autoironica, del nuovo Matrix è ciò che gli fa meritare d’esistere. Noi che eravamo al liceo quando uscì il primo capitolo gongolavamo, a fine proiezione, per questo lunghissimo (due ore e ventotto) bagno di giovinezza: era tutto passato, il presente non esisteva più – perché, ammettiamolo: può esistere un Matrix nella stagione 2021/2022?

Eppure questo Resurrections, diretto da Lana Wachowski in solitaria, funziona. Anche se a volte pare pasticciatissimo – nel frattempo le sorelle hanno girato scult come Cloud Atlas e Jupiter - Il destino dell’universo, ma soprattutto Sense8, che è una delle serie più tamarre di tutti i tempi e la fonte principale di questo quarto episodio – Matrix Resurrections trova la sua ragione d’essere proprio nel suo stare fuori dal tempo, sospeso in un presente che, a pensarci bene, non c’è.

Ma il punto vero è un altro. La filosofia spicciola di cui dicevo poc’anzi, pillola rossa o pillola blu? «Fai le tue scelte», risponderebbe il pizzaiolo, era appunto elementare, nonostante abbia ispirato saggi scritti da veri filosofi e semiologi (e anche tantissimi libri di self-help: erano gli anni in cui hanno iniziato ad andare forte). Ma il mondo di Matrix era, a suo modo, assai complesso. Anche visivamente.

Dice bene Peter Debruge di Variety nella sua recensione al nuovo film: dei tanti elementi che perde Matrix, quello più evidente agli occhi è il verde. Il verde che era l’ossatura estetica della saga, la chiave per fare di quella fantascienza furbissima e giustissima un oggetto che era anche un detour neo-noir, quasi un’installazione d’arte contemporanea. Il verde che non era solo un vezzo, era un dettaglio cruciale per costruire un mondo.

Il verde, in Matrix Resurrections, è pressoché assente. Ci sono tantissimi colori, che sono i colori della Marvel. Sto semplificando, ma proprio qui sta il punto: nella semplificazione di un mondo che può restare, direbbe Herzog, solo nel ricordo; la sua ricollocazione nel presente (che difatti non esiste) può solamente alterarlo, peggiorarlo.

Semplificare

Matrix Resurrections è un film per molti versi sbagliato ma per niente brutto, ma – ed è quello che m’importa di più, che m’ha colpito di più guardandolo – è un film che risponde all’urgenza cieca del nostro tempo di semplificare. Soprattutto quello che vediamo: un flusso ininterrotto, e coloratissimo, di immagini, uno scroll infinito di fotine, filtri, dirette, stories virtuali e reali, ormai la differenza non c’è più. Matrix – e Lana Wachowski, che co-sceneggia con David Mitchell e Aleksandar Hemon – lo sa, e di questo suo sapersi prendere contemporaneamente in giro e sul serio fa parte la battuta (semplifico): senza di noi Zuckerberg non avrebbe fatto quel che ha fatto.

È vero: l’algoritmo wasn’t built in a day, e il mondo di Neo ha contribuito, almeno idealmente, a confezionarlo. Reale contro virtuale: che ipotesi perduta in un futuro lontanissimo, pensavamo allora. Stacco: un anno dopo (i capitoli 2 e 3, Reloaded e Revolutions, sono del 2003, Facebook è stato fondato nel 2004) si poteva “chiedere l’amicizia” a nomi che, almeno nella nostra percezione del tempo, potevano essere di persone vere come di avatar.

C’entra anche l’ultimo Spider-Man, in questa spericolata analisi del presente che non esiste se non in una forma di inevitabile riduzione, di necessaria semplificazione.

Se non l’avete visto – ma non l’hanno ormai visto tutti? – non sarò io a fornirvi gli spoiler del caso che possono attestare questa tesi. Se non l’avete visto, forse saprete comunque che si torna indietro («ogni suo passo era già il passato») con la stessa modalità adottata per le gesta ormai non più futuribili di Neo, Trinity (sempre Carrie-Anne Moss) e Morpheus (il nuovo Yahya Abdul-Mateen II, al posto di Laurence Fishburne). E con lo stesso restringimento narrativo e visivo dell’orizzonte.

Spider-Man: No Way Home è un buonissimo cinecomic che non inventa più niente, perché non c’è più niente da inventare. Semplifica – nel caso ancora non vi fosse chiaro – quel che già c’era stato, schierando tutti gli elementi costitutivi della saga, i buoni e i cattivi, la famiglia e la società, l’amore e il sacrificio. Ma se il Sam Raimi coevo ai primi Matrix era un costruttore di mondi, in un mix anche “cinefilicamente” complesso: c’erano l’action, l’horror, il mélo, il romanzo di formazione, certi espressionismi della Hollywood classica, il Jon Watts regista attuale risponde al bisogno di far contente platee vastissime (lo stesso di allora) ma incapaci di leggere – e vedere – al di là del loro feed (e questo è lo scarto fondamentale dell’oggi).

Universi reloadati

Come detto, Lana Wachowski a girare Matrix è rimasta da sola. Pare, in realtà, che né nei né la sorella volessero andare avanti nell’impresa. La Warner Bros. ha insistito per quasi vent’anni e poi – così narra la leggenda – sono morti entrambi i genitori e Lana s’è convinta a tornare in quella che era la sua famiglia cinematografica d’appartenenza. È una bella storia. Ma, credo io, è rimasta consapevole del fatto che quel che era stato non sarebbe tornato più.

L’Uomo Ragno ha il colosso Marvel alle spalle, Neo & Co. sembrano pedine di una scacchiera ormai molto più irrilevante in termini di immaginario e di industria (non prevedo grandi incassi, ma non li figuravo nemmeno per Spider-Man, almeno non in questa mastodontica misura: perciò non fidatevi di me), ma gli universi “reloadati” di Resurrections e No Way Home si assomigliano molto.

Ripartono dal passato per dirci che il presente non c’è più, se non in una zona franca che dobbiamo ricostruire di volta in volta, ma che non produce storie né Storia. La pillola rossa e la pillola blu contro la tutina rossa e blu del supereroe con superpoteri e dunque super-responsabilità (sempre lì si torna) sono il passo che facciamo, e con gran gioia, nel passato.

«Dove comincia il ricordo che ne conserviamo?», si chiede Werner Herzog riflettendo sulla realtà alterata di Onoda. Forse la domanda è fin troppo complessa per i tempi che viviamo, non vale nemmeno la pena provare a dare una risposta.

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