Ha ragione Giorgia Serughetti, che lo ha scritto su Domani il 1° novembre: è giunto il momento che la sinistra italiana prenda sul serio la sfida per l’egemonia culturale lanciata da Giorgia Meloni. È giunto il momento di smetterla di considerare la sua visione del mondo mera paccottiglia post fascista.

Per capire dove stiamo andando talvolta è utile ascoltare quello che gli altri dicono di noi. Il 26 settembre – con i risultati elettorali ancora freschi – il settimanale The Spectator World titolava: «I conservatori americani dovrebbero ispirarsi a Giorgia Meloni». Ben Domenech, autore dell’articolo, spiegava: «La sua posizione sulla famiglia fornisce un’indicazione sulla strada che la prossima generazione di repubblicani potrebbe imboccare se volesse adottare politiche che prevedano un’America che crede in sé stessa e nel suo futuro».

The Spectator World è l’edizione internazionale del settimanale The Spectator, colonna storica del conservatorismo britannico, che ormai da mesi guarda a Meloni come alla leader europea di una destra, pur radicale, che rompa con l’estremismo economico di Margaret Thatcher per tornare a politiche più attente ai problemi sociali. E si fa beffe del New York Times che in un solo articolo arriva a definirla 28 volte “fascista”.

Al contrario, il settimanale britannico la prende molto sul serio e la indica come l’erede più genuina del grande pensiero conservatore europeo. Ma perché allora, non solo il New York Times, ma anche molti degli uomini di sinistra italiani continuano a baloccarsi con l’immagine banalizzata (e dunque rassicurante) di una Meloni nostalgica e (post)fascista? Qual è il retroterra culturale su cui la Meloni – al di là di una sua evidente simpatia per Benito Mussolini, tatticamente ammorbidita negli ultimi tempi – ha costruito la sua strategia politica?

Filosofo di riferimento

Il filosofo di riferimento, da lei evocato più volte (anche in una lunga intervista a The Spectator all’inizio di agosto oltreché in diversi discorsi pubblici), è Roger Scruton, il filosofo conservatore britannico scomparso due anni fa: intellettuale eclettico che scrisse oltre cinquanta libri sugli argomenti più svariati, dalla filosofia alla musica, dall’arte al vino, dalla religione alla caccia, dal sesso ai diritti degli animali, finché, nel 2016 fu nominato cavaliere (knight bachelor) «per i suoi servizi alla filosofia, all’insegnamento e all’istruzione pubblica».

Va sottolineato che Scruton era tutt’altro che un fascista. E aveva una pessima opinione di Donald Trump, tanto che nel 2018, in un articolo pubblicato dal New York Times, scrisse che il presidente era «il prodotto del declino culturale che stava rapidamente consegnando all’oblio la nostra eredità artistica e filosofica».

Scruton combatteva il fondamentalismo neoliberista della Thatcher perché riteneva che la libertà in economia dovesse essere in equilibrio con gli interessi della comunità. Stigmatizzava gli enormi problemi sociali creati dall’industrializzazione, lo sradicamento di milioni di famiglie dalle loro comunità di origine e l’eccessiva concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi capitalisti che agivano in nome del proprio interesse e non di quello della collettività. Le sue parole chiave erano comunità e solidarietà, ordine e fede.

Scruton si rifaceva al conservatorismo originario di Edmund Burke (altro filosofo talvolta citato dalla Meloni) che, nato in opposizione all’illuminismo settecentesco e agli eccessi della rivoluzione francese, metteva al centro del nuovo ordine (sorto dalla ribellione alle monarchie) la famiglia, le comunità, la fede, la nazione, cioè la difesa delle identità.

Per decenni Scruton si è scagliato contro il multiculturalismo che secondo lui fondeva le diverse culture in una monocultura dell’ideologia progressista ed elitaria. Oggi Meloni si batte contro «il pensiero unico di Menlo Park» (dove sorge il campus di Facebook) e contro «le élite di Bruxelles e Francoforte, di Davos o della City» che agiscono «senza alcuna legittimità democratica».

Scruton pensava che i musulmani immigrati avrebbero alla lunga sfilacciato il tessuto socio-culturale delle società europee perché non avrebbero mai prodotto figli «fedeli a uno stato europeo laico». Diceva che islamofobia «era una parola di propaganda inventata dai Fratelli musulmani per bloccare la discussione su argomenti più importanti».

E che non aveva senso accusare Orbán di antisemitismo e islamofobia: il leader ungherese – secondo lui – «ha un enorme carisma e ha preso decisioni molto apprezzate da un popolo molto allarmato dall’improvvisa invasione di enormi tribù di musulmani dal medio oriente». Un giornale fondato da Scruton nel 1982 (The Salisbury Review) sosteneva che solo «il rimpatrio di una parte della popolazione immigrata e discendente di immigrati» avrebbe potuto prevenire «la distruzione della vita civile nei centri delle grandi città».

Immigrati

In piena sintonia con questo pensiero, Meloni azzarda che, se proprio abbiamo bisogno di importare lavoratori dall’estero, tanto vale farli arrivare dal Venezuela: bianchi, cattolici, di origine europea, più facilmente integrabili nelle nostre tradizioni culturali. E dice agli immigrati che sbarcano sulle nostre coste: se vi sentite offesi dal crocifisso o dal presepe, beh, non è qui che dovete vivere! Il mondo è grande, ed è pieno di nazioni islamiche dove non incontrerete un crocifisso perché i cristiani vengono perseguitati e le chiese rase al suolo!

Scruton era solito raccontare di essere diventato conservatore, a 24 anni, osservando i cortei studenteschi che, nel maggio del Sessantotto, si scontravano con la polizia: li descrisse come «una folla indisciplinata di teppisti libertini della classe media. Ne ero disgustato e pensavo che ci dovesse essere un modo per tornare alla difesa della civiltà occidentale contro queste cose. Fu allora che divenni un conservatore. Sapevo che volevo conservare le cose piuttosto che abbatterle».

Meloni, parafrasando Scruton, dichiara: «Quando distruggi qualcosa, non è detto che tu faccia qualcosa di nuovo e di meglio».

All’inizio degli anni Ottanta Scruton scrisse su The Salisbury Review che «la preoccupazione per l’ordine sociale ci spinge a considerare l’omosessualità come intrinsecamente minacciosa». Nel 2007 corresse parzialmente il tiro affermando che sebbene l’omosessualità «si sia normalizzata, non è normale». Sulla sua scia Meloni si schiera a difesa della “normalità”: «Vogliono che siamo Genitore 1, Genitore 2, genere Lgbt, Cittadini X, dei codici. Ma noi non siamo dei codici, noi siamo delle persone e difenderemo la nostra identità. (…) Ora parlano di togliere la dicitura “padre” e “madre” sui documenti. Perché la famiglia è un nemico, l’identità nazionale è un nemico, l’identità di genere è un nemico. Per loro tutto ciò che definisce è un nemico. È il gioco del pensiero unico».

Scruton diceva che «il conservatorismo è più un istinto che un’idea» e accusava i progressisti di essere ideologici. Meloni difende l’istinto dei sentimenti che lei considera primordiali: la patria, il territorio, la famiglia, la comunità, la sovranità. E lo fa cercando di sfrondare il proprio linguaggio da ogni estremismo, con messaggi che arrivano direttamente alla pancia dei cittadini spaventati e lasciati indietro dal cambiamento troppo rapido che hanno vissuto (che tutti abbiamo vissuto) negli ultimi decenni. Non è un caso che vada a cercare ispirazione oltre la Manica, evitando accuratamente di rievocare gli Evola, i Del Noce, gli Zolla.

Fianco sinistro scoperto

Scruton – pur difensore della libertà economica – si scagliava contro il fondamentalismo di mercato e metteva al primo posto l’interesse nazionale. Meloni è animata da un’identica cultura, la stessa che ha consentito a Donald Trump di conquistare gran parte dei ceti meno abbienti degli Stati Uniti e che vede nella grande finanza il nemico da combattere. E questo è forse il terreno su cui la sinistra ha il fianco più scoperto.

È difficile prevedere se l’indicazione di The Spectator World si mostrerà vincente e Giorgia Meloni diventerà un modello di riferimento per la nuova destra in Europa e negli Stati Uniti. Ma una cosa è certa. Non abbiamo più di fronte la pop-politica di un Berlusconi, né il movimentismo cialtrone di un Salvini. L’estremismo suadente di Giorgia Meloni ha fondamenti più solidi e può contare su una rete internazionale di alleanze più articolata. La guerra tra le due culture, che sta lacerando gli Stati Uniti e una parte dell’Europa, è sbarcata anche nel nostro paese. Continuare a combatterla limitandoci a sventolare le bandiere dell’antifascismo – come il Pd ha fatto nel corso della campagna elettorale e come continua a fare – è davvero troppo poco.

 

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